Il Duka e le serie tv
I migliori scrittori oggi non lavorano più per l’editoria e il cinema
Vinyl
L’ascesa del punk, nella New York dei ’70, narrata da Martin Scorsese e Terence Winter
Vinyl è una serie televisiva creata da Martin Scorsese, Mick Jagger, Rich Cohen e Terence Winter (la penna de I Soprano e The Wolf of Wall Street) per HBO (The Wire,Boardwalk Empire, Entourage, Il Trono di Spade). Racconta la crisi dell’industria discografica, ormai ridotta a un cimitero per elefanti, all’inizio degli anni ’70, dopo la seconda “invasione britannica” (Led Zeppelin, Cream, Jeff Beck Group) del mercato americano , e la ricerca disperata delle major - attraverso le sue poche intelligenze – del nuovo evento. L’episodio pilota, un film della durata di quasi due ore, è scritto da Winter – uno dei migliori sceneggiatori oggi in circolazione - e girato magistralmente dal regista di Taxi Driver. La puntata si apre e si chiude con Richie Finestra, il visionario discografico italoamericano protagonista della serie, che imbocca – con il naso sgommato di bianco dalla cocaina – per sbaglio in un locale mentre suonano i New York Dolls, band che Finestra non conosce. Sulle note di Personality Crisis, l’architettura del mondo crolla davanti alle sue pupille dilatate. Richie è di nuovo estasiato come quando da giovane – tempi in cui lavorava come cameriere nei locali notturni – sentì la semplicità di due accordi e la potenza dei riff - altro che le seghe sparate a vuoto dalla chitarra di Jimmy Page - che scaturivano dalla “The Twang Machine” di Bo Diddley. Finalmente il rock and roll ritornava alle origini. La mattina dopo, in ufficio, Finestra non firma il contratto per i diritti dei Led Zeppelin e invita, a ritmo di insulti, soci e dipendenti – pena il licenziamento - a scovare giovani band nelle strade e nei club malfamati del Lower East Side dove, in mezzo a drag queen, speed freak, prostitute e eroinomani sta per sbocciare il tulipano nero del punk. Per chi, dopo la visione di Vinyl, vuole approfondire l’argomento consiglio la lettura del libro - considerato la bibbia del punk - Please Kill Me di Legs McNeil e Gillian McCain (Baldini Castaldi Dalai editore).
The Get Down
Dal ghetto alla conquista del mondo
The Get Down è una serie tv, uscita per Netflix nel 2016, ideata da Baz Luhrmann - regista cinematografico dei musical postmoderni Romeo + Juliet e Moulin Rouge! - ambientata a New York. Per la precisione nel South Bronx. Siamo nell’anno 1977, anno che i newyorkesi non scorderanno per i saccheggi avvenuti durante il famoso black-out. La musica sta cambiando. Nuovi generi musicali, il punk e la disco music, sono stati partoriti – dal seme fuoriuscito da soggetti marginali – dal ventre immondo della Grande Mela. Da li a poco questi rumori soppianteranno i vecchi suoni e come un virus si diffonderanno in tutto il pianeta. In quei giorni, dentro la centrifuga generata da questo caos creativo, nel South Bronx – grazie anche alla tregua che pone fine alla guerra di strada tra le gang - inizia a prendere forma un nuovo stile. La cultura hip hop. Grazie a pionieri come - l’immigrato giamaicano - Dj Kool Herc, Grandmaster Flash e – l’ex capo guerra dei Black Spades – Afrika Bambaataa. Dal punto di vista musicale questo genere a cui piace collocarsi in opposizione alla disco a subito da parte di quest’ultima una forte influenza. E condivide con il punk l’attitudine “fai da te”. La storia narra le vicissitudini di un gruppo di pischelli che ammazzano il tempo, uccidono la noia, tra rap, passi di danza e graffiti. Spraytando muri e vagoni della metro che fanno viaggiare i loro tag lungo le arterie della metropoli. Come set le macerie di edifici incendiati e poi demoliti dai palazzinari. Distruggere il Bronx per poi speculare con la ricostruzione. La serie è un kolossal: 120 milioni di dollari per rendere ogni dettaglio perfetto. Maniacale!!! Tutto deve essere come allora. Abbigliamento – scarpe scamosciate Puma, giubbetti Adidas, le divise con i colori delle gang - taglio di capelli, arredamento delle discoteche, macchine e vagoni tutti graffitati. Questa è la sua forza. Merito della costumista Catherine Martin che ha già lavorato – vincendo quattro premi oscar - nei film Luhrmann. Per saperne di più sulle origini dell’hip hop nel Bronx leggete il saggio Renegades of Funk di U. Net (Agenzia X).
BLACK SAILS
Le rotte atlantiche della guerra di classe
Era dai tempi di The Wire e Breaking Bad che non finivo magnato dalla rota per una serie tv. Causa della mia ennesima scimmia è Black Sails - la prima che mi sono sparato in streaming senza aspettare l’appuntamento settimanale su RAI 4. La fissa per la fiction - che si candida a prequel de’ L’isola del tesoro, di Stevnson - mi è partita, sia per l’ammirazione che avevo da bambino per i pirati dei Caraibi, ma soprattutto per l’apertura – episodio 0.1 - del Capitano Flint: “Quando dico che sta arrivando una guerra… non intendo dire con la Scarborough, non intendo con re Giorgio né con l’Inghilterra. Sta arrivando la civiltà e ha intenzione di sterminarci”. Per la prima volta una serie televisiva, prodotta da eredi dei proto-liberisti (Platinum Dunes, Quaker Moving Pictures) che sconfissero i pirati d’oltreoceano, non mette al centro della narrazione le avventure guascone, da cappa e spada, della pirateria, ma il suo ruolo di proletariato atlantico, significativo nella lotta contro il monopolio spagnolo del commercio e gli Stati-nazione agli albori di colonialismo e capitalismo. Secondo me gli ideatori della serie - due onesti marchettari come Jonathan E. Steinberg e Robert Levine – centrano per una botta di culo le origini del conflitto per il controllo delle rotte marittime - premessa alla guerra di classe nel Nuovo Mondo. A chi non dovesse accontentarsi di arrembaggi, battaglie navali, bordelli, rhum e intrighi vari e vuole una lettura radicale dei fatti, consiglio gli studi di Peter Linebaugh e Marcus Rediker, autori de’ I ribelli dell’Atlantico (Campi Del Sapere, Feltrinelli 2004). Un saggio straordinario da leggere assolutamente!!! Per chi, invece, ai pipponi preferisse la narrativa, suggerisco il capolavoro di Valerio Evangelisti – trilogia della Filibusta - Tortuga, Veracruz, Cartagena (Mondadori).
Fargo
La piramide dei Coen
La serie tv costruita per tumulare, sotto il peso della loro opera, Joel & Ethan. Fargo serie televisiva antologica – ogni stagione narra una storia diversa – ispirata all’omonimo film è una imponente architettura funeraria innalzata – a forza di citazioni continue dell’intera filmografia di Joel & Ethan - per celebrare, venerare e prostrarsi davanti l’intera carriera, costellata di Premi Oscar e Palme d’Oro, dei fratelli Coen. Mai nessun regista nella storia di Holliwood, nemmeno Billy Wilder e John Ford, era stato tumulato dentro una piramide – paragonabile per magnificenza a quella di Cheope – dalla major proprietaria dei diritti dei propri film. La genesi dell’opera televisiva ha inizio nel 2012 quando la FX (canale di FOX) firma un contratto con i Coen - che diventano produttori esecutivi della serie – e trova un accorto con la Metro Goldwyn Meyer - entra nell’affare al cinquanta per cento - proprietaria dei diritti cinematografici della pellicola. La prima stagione di Fargo, più che una miniserie, un film tv della durata di dieci ore, si ispira all’omonima opera dei due fratelli. Ma attenzione non è un remake. E’ un opera a se stante. Siamo davanti a un franchise di un titolo, trasportato dal grande al piccolo schermo, evocativo per lo spettatore. Noah Hawley scrive una sceneggiatura che sfiora solo accidentalmente il soggetto del film originale. La storia trae ispirazione dall’opera dei registi più per le tonalità che non dalla trama. Anzi Hawley fa di più, schakera - nella prima stagione – Fargo con, altre due pellicole dei Coen, Non è un Paese per Vecchi e A Serious Man. La serie - vincitrice di 2 Golden Globe - è ambientata in Minesota, terra natale di Joel e Ethan, per la precisione a Duluth. Quale luogo migliore per edificare la piramide che non Duluth città, famosa nel mondo, dove per la prima volta è stata sperimentata la tecnica della batterioterapia fecale.
True Detective
Mappare la topografia dell’orrore saccheggiando la letteratura di genere
True Detective serie antologica – che ha debuttato il 12 gennaio 2014 sul canale via cavo HBO - creata e interamente scritta da Nic Pizzolato. Autore, dalla penna sopraffina, capace di saccheggiare – per sua stessa ammissione - la migliore letteratura di genere. Per copiare “bene” bisogna sapere scrivere. Nella prima e osannata stagione – un capolavoro – l’autore sovrappone il crime al horror. Pizzolato non ha attinto - ormai scontata soluzione – al maestro del genere Stephen King. Tracciare oggi la toponomastica del male significa stracciare la piantina – disegnata in Shining - del Overlook Hotel. Si è guardato intorno. Ha cercato il meglio della letteratura, americana contemporanea, odierna. Incappando in un autore di culto – da depredare - Thomas Ligotti. Grande scrittore erede di Howard Phillips Lovecraft e Edgard Allan Poe – poco conosciuto in Italia – di cui consiglio assolutamente la lettura di Teatro Grottesco (Il Saggiatore). Ligotti evoca un orrore informe i cui personaggi si muovono in realtà sotterranee fatte di scantinati umidi, fabbriche abbandonate e paludi in cui dimorano culti antichi e terribili. La trama della prima stagione, ambientata in Louisiana, segue le vite degli sbirri Rust Cohle e Marty Hart lungo una caccia, durata diciassette anni, a un serial killer. I due investigatori – la migliore coppia di guardie mai vista sul piccolo e grande schermo - sono magistralmente interpretati da Mattthew McConaughey (premio oscar – miglior attore – per Dallas Buyers Club) e Woody Harrelson (Natural Born Killer, Larry Flynt).
Oggi dobbiamo chiederci perché le migliori penne in circolazione - non lavorino più per l’editoria e il cinema – scrivono per la televisione? Scrittori responsabili della nuova dipendenza – la rota da serie tv - da cui siamo affetti.
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