Pubblicato il 26/06/2012 14:47:56
CARTA IMAGINARIA
(De Ulises a Nausica)
Vivo en un reino milenario. El cielo pasa sobre las torres como un agua llena de cantos. Puedo ver la luna que rodea a los pájaros, la piedra donde alguien escribió que todo es vano, que el hilo de las túnicas se pierde y no retorna nunca. Tamarindos había que en sus hojas anunciaban un dolor y una música a las reinas que venían del agua más profunda. Y había la mañana, el mediodía, los jardines de piedra, el cactus negro.
Tengo aún en mis manos una rama plateada por la muerte, y una historia que habla de los que fueron. Las murallas de la ciudad recuerdan todavía una nave que estuvo en otra orilla anclada por el peso de mis viajes entre sombras, lotófagos, demonios.
Si supieras, Nausica, cómo ha sido mi vida desde entonces: nada grata para quien vio la flor de los granados y la esparció en su lecho y su memoria, mientras cantaba el ciego al que ofrecieron una silla de cedro y una fábula.
Tú me guiaste a la ciudad, desnudo, sólo cubierto por el mar de arena y por hojas de luz de su hondo prado para contar mi gloria, mi infortunio. Te seguí, como dios que me creía, soñando con mi isla venturosa donde había dejado tres colores y un patio y una vid y a mis amigos. Pero la Reina no esperó mi nave, la soñó bajo el agua deseada, y soñó mi esqueleto deslumbrado por nácares y peces y penumbras donde cae la tarde y la madera no es sino puente de un jardín en sombra.
En mi sueño me vi, Rey abatido por la espada que guardo aún oculta para el Rey extranjero. Soñé enconces que moriría lejos de mi patria,
que no volvería a ver en los espejos las calles de mi Ítaca y el vuelo que prepara mi arco en esa dicha perfecta de las olas y las piedras.
Vivo en un reino milenario, es cierto, sólo un mar de jazmines me rodea. Salgo a los bosques cuando el cielo teje la medianoche, solo y en silencio con mi vida: el destino no me deja lanzar mi flecha, como yo quisiera, al corazón del jabalí y la luna: nunca doy en el blanco, y sólo puedo pensar en ti, Nausica. Los feacios jamás supieron ver en el relato de Demódoco, el ciego, que tuvieran en su sala de sándalo al más pobre y más desencantado navegante.
Yo no escuché la historia de mis viajes, pues veía en tus ojos otra historia, y esa noche soñé con un vestido que adoraban tus manos, y una espada. De lo demás, Nausica, no quisiera acordarme: la nave hecha pedazos, los marineros muertos y un fantasma vagando entre los pinos de la isla. Los pinos de la isla eran tan bellos, y ya no tengo cerca ni su sombra. Ítaca fue un jardín, y hoy sólo escucho cantar a las serpientes; ramas duras, endrinos y no almendros, y la piedra donde alguien escribió que todo es vano.
(da Carta imaginaria, 1998)
***
LETTERA IMMAGINARIA
(Da Ulisse a Nausica)
Vivo in un regno millenario. Il cielo passa sopra le torri come un'acqua piena di canti. Posso vedere la luna che avvolge gli uccelli, la pietra dove qualcuno ha scritto che tutto è vano, che il filo della tunica svanisce per non trovarsi più. Tamarindi c'erano che dalle foglie annunziavano dolore e musica per le regine che venivano dall'acqua più profonda. E c'era la mattina, il mezzogiorno, i giardini di pietra, il cacto nero.
Conservo ancora in mano un ramo argentato dalla morte, e una storia che parla di coloro che furono. Le mura della città evocano ancora una nave che a un'altra sponda fu ancorata dal peso dei miei viaggi tra ombre, lotofagi, e demoni.
Se tu sapessi, Nausica, come è stata la mia vita da allora: non grata per chi ha visto i fiori del melograno sparsi sul proprio letto e nel ricordo, mentre il cieco cantava e gli offrivano una sedia di cedro e una favola.
Tu mi portasti nella città, nudo, soltanto coperto dal mare di sabbia e da foglie di luce del folto del bosco per dire la mia gloria, la mia pena. Io ti seguii credendomi un dio, quindi sognando la mia isola felice dove avevo lasciato tre colori e un patio e una vigna e i miei amici. Ma la regina non attese la mia nave, la sognò in fondo alle agognate acque, e sognò il mio scheletro abbagliato da mezze luci e pesci e madreperla dove la sera arriva a un tratto e il legno non è altro che ponte di un giardino in ombre.
Nel suo sogno mi vidi, re abbattuto dalla spada che tengo ancora occulta per il re foraneo. Ho sognato allora che sarei morto lontano dalla patria, che non avrei rivisto negli specchi le strade della mia Itaca né il volo che propizia il mio arco nella gioia perfetta dei marosi e delle pietre.
Vivo in un regno millenario, è vero, un mare di gelsomini mi circonda, entro nei boschi quando il cielo forma la mezzanotte, solo e silenzioso con la mia vita; il destino non mi lascia lanciare la mia freccia, come vorrei, dritta al cuore del cinghiale e della luna: non colpisco il bersaglio e solo posso pensare a te, Nausica. I feaci non seppero vedere nel racconto di Demodoco, il cieco, che avevano nel salone di sandalo il più povero e il più disincantato dei navigatori.
Io non ascoltai la storia dei miei viaggi, perché nei tuoi occhi vedevo un'altra storia, e quella notte sognai di un abito che le tue mani adoravano, e di una spada. Il resto, Nausica, non vorrei ricordarlo: la nave fatta a pezzi, i marinai morti e un fantasma che vagava nel pineto dell'isola. Dei pini che erano così belli non mi rimane ormai nemmeno l'ombra. Itaca era un giardino, ma oggi sento solo il canto dei serpenti; rami duri, prugnoli anziché mandorli e la pietra dove qualcuno scrisse tutto è vano.
(http://www.filidaquilone.it/num003canfield3.html)
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