Da Settembre ero io di Ostman Fuss Reiter, (Neuhaus 1920-Weissenstein 1954)
I
E’ tutto quello che ricordo di quel tempo:
il battito del mio stesso cuore mi feriva.
Veniva ognuno con in tasca la combinazione
[vincente.
Fossero parole ispirate o cifre
tradotte da dissepolte clavicole, la faccia
diceva tutta l’elezione che parava il carnevale
[della loro agonia.
E i loro figli crescevano
invincibili come nomadi che assediano
regni sedentari per tenerne lo scettro promesso.
Ammazzavano altri figli distratti dalla perplessità,
resi inermi dalla astuta strategia dell’amore,
perché anche l’amore ha da lottare per la sua
sopravvivenza e scava languido - mentre finge
di morire - trappole per teneri cerbiatti.
Se me lo chiedi, non so risponderti altro.
E’ tutto quello che ricordo di quel tempo:
il battito del mio stesso cuore mi feriva.
Provai rancore per Dio mentre era vivo,
e lo stesso continuai a sentire dopo la sua morte
ed anche questa, conclusi, è una forma dell’eterno.
In quel rancore mi avvolgevo e nella nicchia
che Lui lasciò – perché Dio se muore non lascia resti –
fingevo di dormire e respiravo rancore e
gli animali non si avvicinavano: quelli feroci
mi osservavano da lontano, con contenuto ardore,
[come per imparare…
I battiti del mio stesso cuore mi ferivano
e Settembre ero io, una delle vesti di Lei, opaca,
che con metodo fermentava graduale oppio
a narcotizzare le radici ingenue del mondo
descritto nel volume delle foglie d’autunno.
Il mese che gli altri undici temono, il nove,
lanterna alla pena della vana trasmutazione,
cifra del vagito e della muta esalazione.
Aprile, il suo speculare, dai subitanei
corrucci, l’antesignano della gloria solare,
leva lento la luce che dorerà tutte le cose
che l’inverno ha franto e ogni frammento
[all’altro si risalderà.
Ma Settembre… Annuncio finale, più calvo
d’ottobre, marcisce la perla, ne fa polvere
che va persa nei ghiacciati cunicoli dei mondi.
II
Allora non precipitai io nel silenzio,
fu lui a sprofondare in me.
L’afasia dell’acqua trovò una acconcia valle
per insegnare l’arte dell’affogamento e dimostrò
che il liquido è l’idiozia vincente dell’assoluto,
la sua forma naturale: trova un vuoto e lo riempie…
A voi della mia stessa stirpe odissea
l’offerta di quella fine perché infine ricordai
in un punto stellare che vaniva
la sorella endura alle inospiti plaghe del Nord
sui carri gravi della nostra notte cieca d’astri.
Razza che il deserto piegò
e gli diede un nome – votata al dio vento
che passa tra i fiori - ; razza che altre
attraversarono mischiando la loro ventura
alla sua; ospite razza, quale una grotta
del primo mattino ti facesti pozzo che
aduna naufragi di sangue dai quattro
cardinali; razza che ad altre innumeri
ti ammogliasti nel fremito latteo
di intraducibili orgasmi – ricordai
l’attesa profonda nel sonno
dell’ululato, la sua curva, dapprincipio
esitante, modulazione salire dalle viscere
che alle corde tese della gola levarono
il celibato di un’estasi marina ai soli…
Poi l’ultima domanda fu per Lei cui si inchinò la luce.
Soffiava un vento caldo che si era inebriato di corpi
senza legge e ben disposto per qualsiasi inizio o fine.
Càlati, le dissi, su me non come
il velluto della notte su un giardino
fiorito di fontane che cantillano
distici di freschezza; non come
un crepuscolo distilla preziose
le stille lucenti di Vespero, ma con quello
che della tua carne ha fatto
per tutto questo giorno il sole
sul mio nome che ti pervade
come un vento perso
nel labirinto di riarse grotte
che il tuo desiderio perenne scava.
Poi tienimi in te per il tempo
dell’antico patto e partoriscimi infine
come una pura sillaba d’infinito.
Ma non era più quello il tempo
di una preghiera di tal nome.
Si alzò un vento fresco,
di quella freschezza che dischiude porte
al feretro e all’appagato mormorio
di liberati congiunti. Credete che a torto
fu detto il basso uguale all’alto e l’alto
al basso?
Allora non sentii più i battiti del mio cuore
e quelli di qualsiasi altro cuore nel mondo
che fu di Dio;
niente poté più ferirmi da allora
e non ci fu più sangue, non fui più del sangue io.
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