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E’ tutto quello che ricordo

di Pietro Menditto
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Pubblicato il 19/10/2012 08:12:32

Da Settembre ero io di Ostman Fuss Reiter, (Neuhaus 1920-Weissenstein 1954)

 

I

 

E’ tutto quello che ricordo di quel tempo:

il battito del mio stesso cuore mi feriva.

 

Veniva ognuno con in tasca la combinazione

                                                                  [vincente.

Fossero parole ispirate o cifre

tradotte da dissepolte clavicole, la faccia

diceva tutta l’elezione che parava il carnevale

                                                     [della loro agonia.

E i loro figli crescevano

invincibili come nomadi che assediano

regni sedentari per tenerne lo scettro promesso.

Ammazzavano altri figli distratti dalla perplessità,

resi inermi dalla astuta strategia dell’amore,

perché anche l’amore ha da lottare per la sua

sopravvivenza e scava languido - mentre finge

di morire - trappole per teneri cerbiatti.

 

Se me lo chiedi, non so risponderti altro.

E’ tutto quello che ricordo di quel tempo:

il battito del mio stesso cuore mi feriva.

 

Provai rancore per Dio mentre era vivo,

e lo stesso continuai a sentire dopo la sua morte

ed anche questa, conclusi, è una forma dell’eterno.

In quel rancore mi avvolgevo e nella nicchia

che Lui lasciò – perché Dio se muore non lascia resti –

fingevo di dormire e respiravo rancore e

gli animali non si avvicinavano: quelli feroci

mi osservavano da lontano, con contenuto ardore,

                                                        [come per imparare…

 

I battiti del mio stesso cuore mi ferivano

e Settembre ero io, una delle vesti di Lei, opaca,

che con metodo fermentava graduale oppio

a narcotizzare le radici ingenue del mondo

descritto nel volume delle foglie d’autunno.

Il mese che gli altri undici temono, il nove,

lanterna alla pena della vana trasmutazione,

cifra del vagito e della muta esalazione.

Aprile, il suo speculare, dai subitanei

corrucci, l’antesignano della gloria solare,

leva lento la luce che dorerà tutte le cose

che l’inverno ha franto e ogni frammento

                                                    [all’altro si risalderà.

Ma Settembre… Annuncio finale, più calvo

d’ottobre, marcisce la perla, ne fa polvere

che va persa nei ghiacciati cunicoli dei mondi.

 

II

 

Allora non precipitai io nel silenzio,

fu lui a sprofondare in me.

L’afasia dell’acqua trovò una acconcia valle

per insegnare l’arte dell’affogamento e dimostrò

che il liquido è l’idiozia vincente dell’assoluto,

la sua forma naturale: trova un vuoto e lo riempie…

 

A voi della mia stessa stirpe odissea

l’offerta di quella fine perché infine ricordai

in un punto stellare che vaniva

la sorella endura alle inospiti plaghe del Nord

sui carri gravi della nostra notte cieca d’astri.

Razza che il deserto piegò

e gli diede un nome – votata al dio vento

che passa tra i fiori - ; razza che altre

attraversarono mischiando la loro ventura

alla sua; ospite razza, quale una grotta

del primo mattino ti facesti pozzo che

aduna naufragi di sangue dai quattro

cardinali; razza che ad altre innumeri

ti ammogliasti nel fremito latteo

di intraducibili orgasmi – ricordai

l’attesa profonda nel sonno

dell’ululato, la sua curva, dapprincipio

esitante, modulazione salire dalle viscere

che alle corde tese della gola levarono

il celibato di un’estasi marina ai soli…

 

Poi l’ultima domanda fu per Lei cui si inchinò la luce.

Soffiava un vento caldo che si era inebriato di corpi

senza legge e ben disposto per qualsiasi inizio o fine.

 

Càlati, le dissi, su me non come

il velluto della notte su un giardino

fiorito di fontane che cantillano

distici di freschezza; non come

un crepuscolo distilla preziose

le stille lucenti di Vespero, ma con quello

che della tua carne ha fatto

per tutto questo giorno il sole

sul mio nome che ti pervade

come un vento perso

nel labirinto di riarse grotte

che il tuo desiderio perenne scava.

Poi tienimi in te per il tempo

dell’antico patto e partoriscimi infine

come una pura sillaba d’infinito.

 

Ma non era più quello il tempo

di una preghiera di tal nome.

Si alzò un vento fresco,

di quella freschezza che dischiude porte

al feretro e all’appagato mormorio

di liberati congiunti. Credete che a torto

fu detto il basso uguale all’alto e l’alto

al basso?

 

Allora non sentii più i battiti del mio cuore

e quelli di qualsiasi altro cuore nel mondo

                                                       che fu di Dio;

niente poté più ferirmi da allora

e non ci fu più sangue, non fui più del sangue io.

 

 



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