«VORAGINI ED APPIGLI» - ( poesie) - Ed. Pungitopo, 2016
(dalla prefazione di Giorgio Linguaglossa)
Con il suo caratteristico tono sobriamente dissonante, a metà tra il calligrafismo e la didascalia stilizzata, questa raccolta di Nicola Romano si rifugia nell'elegante fattura del settenario come per prendere le distanze da tutto ciò che non può entrare in quel metro breve.
Sicuramente, l’ironizzazione e la parodia della tradizione crepuscolare italiana sono uno dei cardini della poesia, o meglio, della poesia dell'autore. Il suo progetto di operare una «discesa culturale» di bachtiniana memoria nella poesia italiana, ha avuto successo, è un’operazione utile come può essere utile ogni operazione di «discesa culturale» in presenza di una tradizione che sta in alto. Ma l'autore non si limita ad una mera «discesa culturale», opera anche una «risalita» mediante l’adozione di un metro breve, il classico settenario, posizionato come metro esclusivo di questo poemetto. Metro della tradizione burlesca che l'autore ripropone nella sua traslazione dal burlesco all'ironico. Personalmente, nutro molti dubbi sulla utilità e sulla efficacia, oggi, in Italia, di una «discesa culturale» che non venga accompagnata anche da un riposizionamento verso l'alto, siamo già scesi così in basso che ogni forma d’ironizzazione rischia di cadere nel vuoto da cui proviene. Così, il poeta dei nostri giorni deve saper modulare entrambe le opzioni metriche e stilistiche, deve oscillare sapientemente tra la «discesa» e la «risalita»; ed è quello che fa il Nostro, il quale lascia oscillare il dettato poetico tra i due poli mediante l’adozione di un punto di vista serioso e supercilioso sulla realtà. Cioè, per l'autore siciliano è serioso ciò che non appare esserlo, è serioso lo stile dilemmatico che oscilla tra un più e un meno, tra i due poli inconciliabili sopra detti. Semmai, il problema per il poeta è il «vuoto» della società italiana. Ed è con questo problema che si misura il «finto vuoto» dei versi di Romano, fatti apposta per attirare e fagocitare il «vuoto». È la sua risorsa strategica, l'ultima, direi, quella di riformulare il «vuoto» ricorrendo ad una testuggine di parole indurite nei settenari, brevi, rapidi, superciliosi, ultra minimalisti.
La poesia del nostro autore sospende la «normalità», la «rovescia» ma, rovesciandola, la lascia intatta, anzi, la rende maggiormente visibile, la invita a sopravvivere, non a «rigenerarsi», perché Romano è un poeta dei nostri tempi, un poeta disilluso che ha smesso da tempo di credere, sa bene che qui si tratta del capitale finanziario il quale ama i minimalisti perché lo lasciano stare lì dove lui può proliferare, a lui vanno bene i patemi d'animo e le rimembranze del cuore come anche la cronaca nera e la cronaca rosa, entrambe de-sostanzializzate e de-realizzate, nonché tutto ciò che sa di sentimento del tempo olistico e solitario.
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