CAPITOLO VI – La fuga
Lasciata la locanda, i tre ragazzi cercarono un mezzo di trasporto per raggiungere l’altra riva.
Un gran numero di imbarcazioni solcavano le acque del Nilo: a vele, a remi, in papiro o acacia, sicomoro o cedro del Libano.
C’erano anche grosse chiatte manovrate da dozzine di rematori e numerosi barconi per trasporti pesanti blocchi di pietra, trainati da piccole barche; in piedi a prua, un uomo misurava l profondità delle acque con lunghe pertiche
Non restava, ai tre, che scegliere tra le tante barche quella che li avrebbe traghettati al di là del fiume.
“Come facciamo a raggiungere l’altra sponda? Non abbiamo di ché pagare.” fece osservare la ragazza.
“Devi dirmi solo su quale barca vuoi salire.” rispose il fratello.
Le barche portavano nomi come: Toro Selvaggio, Occhio di Horo, Adorazione di Ammon e altro.
“Voglio salire sul Toro Selvaggio. –disse Nefer – Però, sono curiosa di sapere come farai, senza farti riconoscere.”
I tre, infatti, per non farsi riconoscere avevano indosso vesti da servi e Thotmosis vi aveva nascosto sotto, il pettorale da Ufficiale delle Guardie Reali.
“So io come fare. – il ragazzo si portò le mani attorno alla bocca a mò di conchiglia e gridò – Ehi… Voi del Toro Selvaggio, accostate a riva e fateci salire a bordo.”
“Perché dovremmo farlo?” risposero dalla barca; Xanto assisteva in silenzio.
“A me pare che sulla vostra barca ci sia posto anche per noi e le Scritture dei Saggi dicono: Accetta il pedaggio di colui che è ricco e lascia passare chi è povero… Se non farai questo, sarai punito perché le Scritture dicono anche: Colui che compie il male, la riva lo respinge e l’acqua della piena lo trascina e che…”
Dalla barca, che stava già accostando, cercavano inutilmente di prendere la parola.
“Quanto hai – continuava imperterrito il ragazzo – è dono di Dio che dà e toglie quando vuole…”
“Perché mi auguri disgrazie? – riuscì finalmente ad interromperlo il proprietario della barca, spaventato da eventuali disgrazie – Ti ho, forse, negato il passaggio?”
Fu così che i tre riuscirono a raggiungere la riva opposta, anche questa affollata di barche e barcaioli, zattere e caricatori, soldati e operai.
Si aprì davanti a loro la Città dei Morti, riarsa e gialla, su cui Horo picchiava implacabile già a quell’ora del mattino.
Allontanandosi dal greto, arruffato di radi cespugli di canne e qualche esile palma, i tre avanzarono verso l’interno di un anfiteatro naturale, suggestivo, inquietante e arido.
Non era la prima volta che Nefer metteva piede in quella terra arroventata, ma ogni volta l’inquietudine era la stessa.
Non che avesse paura di morire, considerando la morte un naturale “passaggio”, necessario per lasciare la vita “al di qua” e ritrovarla “al di là”: era piuttosto il timore di non essere adeguatamente preparata all’evento.
La sua nutrice le aveva spiegato che “questa vita” altro non era che la concessione degli Dei fatta alla creatura umana di permetterle di prepararsi a ”l’altra vita” e procurarsi tutto il necessario sul piano materiale e magico rituale.
Nefer, però, sapeva che molto spesso le Hut-Ka, le “dimore dello spirito defunto”, passavano di mano in mano ed era necessario che l’ultimop occupante disponesse di amuleti efficaci e formule magiche per poter neutralizzare le maledizioni dei precedenti “sfrattati”. Lei sapeva che coloro i quali non possedevano una buona tomba, nonavrebberogoduto, nell’altravita, dialcunaconsiderazione e che…
“PerlaBarbadiAmmon!”
L’esclamazione di Thotmosis la distrasse dalle sue riflessioni.
Nefer si guardò intorno e la Valle del Silenzio le apparve tutt’altro che silenziosa: operai, mercanti e soldati. Soprattutto soldati, armati e dall’aria minacciosa.
Il principe Xanto non poté non farlo notare agli amici:
“Che cosa ci fanno assembrati qui, tutti quei soldati?… E’ tutto l’esercito del Faraone?”
“Per la Barba di Ammon! – ripeté il principe di Tebe – Hai proprio ragione! Non ho mai visto tanto spiegamento di soldati, quaggiù!”
“Saranno qui per me? – domandò in tono apprensivo il fuggiasco – Mi cercano in ogni dove: la mia fuga è una sfida per il Re di Sparta, che vuole esibirmi come trofeo di guerra, quando sarà tornato nella sua terra… Così come suo fratello, il re Agamennone, ha fatto con mia sorella, la principessa Cassandra ed Odisseo con la regina Ecuba.” aggiunse in tono carico di doloroso rancore.
“Non temere. – lo confortò Nefer – Nessuno riuscirà a mettere in catene il principe Xanto.”
“Sono sicuro che la ragione di tanto spiegamento di forze abbia un altro motivo.” disse Thotmosis.
“Il principe Thotmosis ha ragione. – una voce alle spalle li costrinse tutti a voltarsi – Questi soldati sono qui per una causa di giudizio.”
“Ankheren!” esclamò il principe Thutmosis riconoscendo nel ragazzo che gli stava di fronte l’amico di tante sortite fatte in passato assieme alla sorella. (vedere libro: IL GUaRDIANO DELLA SOGLIA)
“Sono proprio Ankheren, mio signore.” Fece l’altro, sprofondandosi in un inchino che gli portò la punta delle dita a toccare quelle dei piedi.
“Ma che cosa ci fai qui, amico mio?” Thotmosis lo invitò a rialzarsi.
“E’ una domanda che dovrei fare io a te, mio signore, se mi concedi la confidenza e…”
“Non ti ho concesso solo quella, amico mio, ma anche di chiamarmi con il mio nome… se lo ricordi ancora, ah.ah.ah…” rise il principe.
(continua)
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