(seguito)
“Il Faraone desidera tornare a Pi-Ramesse per seguire i lavori al Tempio dio Ra.- spiegò il fratello – Ha dovuto trascurarli, da quando ha mosso guerra contro le tribù dei Libu e dei Mashwash, ma tornerà a Tebe per il Giubileo.”
“Aspetta…”
Nefer si fermò per raccogliere una manciata di grano e deporla nel sacco di vimini retto dal ragazzino.
“Ma che fai? Vieni!” la sollecitò Thotmosis, prendendola per un braccio; Nefer resistette agli strattoni del fratello e poi intonò:
“Chiccolino dove sei?
Sono sotto terra, non lo sai?
I due ragazzi la guardarono e si scambiarono un’occhiata; anche il ragazzino, che aveva chiuso il sacco e lo stava sollevando da terra, la fissò stupito; Nefer continuò:
“E là sotto non fai nulla?
Dormo dentro la mia culla.
Dormi sempre, ma perché?
Voglio crescere come te.
E se tanto crescerai, chioccolino che farai?
Una spiga metterò e tanti chicchi ti darò.”
“E questa che cos’è?” domandò alla sorella Thotmosis, al ché, il principe Xanto disse:
“La principessa Nefer canta come un citaredo dell’Arcadia… Dove la gente è felice, contenta e un po’ strana.” aggiunse con un sorriso.
“Da qualche tempo anche la mia sorellina è un po’ strana, vero Nefer?”
“Aspettate.” fece per tutta risposta la ragazza. Una giovane donna, intanto, con un bimbo in spalle e una cesta in mano, s’era avvicinata per aiutare il ragazzino a chiudere il sacco. Ignorando la sua vera identità, disse:
“Che cosa vuoi, ragazza?”
“Nulla.” rispose Nefer facendo spallucce e allontanandosi per seguire i due ragazzi.
“E’ una bella filastrocca.” sorrise il principe troiano girandosi a guardarla con quella dolce insistenza con cui si contempla un prodigio; intanto, il canto delle cicogne che nidificavano tra le canne del fiume, giungeva sommesso.
“Isabella… è lei che la recita spesso.” spiegò.
“Isabella? – fece eco Xanto – Che nome strano!”
“E’ il nome che ha preso l’altra me stessa… - una pausa per un sorriso, poi la principessa proseguì – Isabella è colei che verrà dopo di me, nei tempi che verranno dopo questi.”
“L’altra te stessa? Non capisco quello che dici.”
Xanto la guardava con sempre crescente stupore.
“L’hai sentita? – interloquì Thotmosis – Ti ho detto che da qualche tempo dice cose strane.”
“Le ragazze dicono spesso cose strane. – Xanto scosse il capo sorridendo, ma ridiventò subito serio – Anche Cassandra, una delle mie sorelle, diceva spesso cose strane… Nessuno le dava ascolto. Oh!… - la voce gli si incrinò – Parevano cose senza senso anche quando profetizzava la caduta della nostra città. Quando mio fratello Paride condusse a Troia Elena, la Regina di Sparta, lei mise in guardia la mia gente dal pericolo che incombeva. Pianse e scongiurò, ma nessuno volle crederle e invece…. Invece le sue visioni erano vere… Se solo le avessero ascoltate, i Saggi e il Re di Troia…”
Nefer e Thotmosis ascoltavano in silenzio: conoscevano la storia di Cassandra e dell’indesiderato dono della preveggenza inascoltata; ebbero un sospiro e ripresero la strada.
Proseguirono, ma si fermarono dopo pochi passi ad osservare le operazioni di carico di alcuni blocchi di pietra. Erano stati caricati su due slitte e assicurati a robuste corde, spesse quanto il polso di un uomo. Altre due slitte erano già pronte, con il carico coperta da stuoia, a bordo di una chiatta pronta a partire.
I tre aspettarono per un pezzo prima che tutte le slitte fodero caricare e la strada dichiarata libera poi si allontanarono.
Seguendo le orme lasciate nel fango da qualche carro pesante, raggiunsero la strada del porto.
Era un’arteria affollatissima: gente povera, a piedi scalzi e i laceri perizomi e gente ricca, con vesti di lino pregiato o fresco di bucato.
C’erano mercanti e pescatori, funzionari e barcaioli, soldati e lavandai, ma, in quella stagione, c’erano soprattutto raccoglitori di loto e canne di papiro.
Qui, i cespi erano più bassi e meno sviluppati di quelli del Delta e, per questo, meno pregiati, ma anche i rischi erano minori: non c’erano acquitrini, né sabbie mobili e anche il numero di coccodrilli ed ippopotami era inferiore.
Un carro carico di anfore passò sfrecciando al loro fianco, grosse e panciute, chiuse con tappi di argilla, contenevano birra e portavano inciso il nome del birraio, il luogo e la data di fabbricazione.
Benché la gente, soprattutto i contadini, fabbricassero da sé la birra, quello del birraio era uno dei mestieri più lucrosi ed apprezzati.
(continua)
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