Arte e finzione
“Il poeta è un fingitore”, afferma Pessoa. L’artista in genere è un fingitore, forse per quell’ “aria di famiglia” che circola all’interno di tutto ciò che costituisce il mondo “ristretto” di chiunque identifichi la propria esistenza con la necessità di un fare particolare, che ne costituisce la cifra. Un fare che assimila a sé e modella (trans-forma o de-forma) tutti gli aspetti della realtà e dello stesso sé, e dà loro un senso - altrimenti cercato invano.
L’arte è fuga dall’immediatezza del riconoscimento di un senso dato. E’ rifiuto di un dono accettato come una grazia e di cui, in tal modo, si finisce con lo svalutare la portata: c’è, mi vien dato, lo prendo. Tutto così naturale da obnubilare l’atto originario della donazione a cui l’esistenza stessa mette capo.
L’artista è un fingitore: ha bisogno di fingersi creatore e donatore di senso. Per farlo deve attraversare l’inferno della perdita, dell’estraniazione, della manchevolezza assoluta, da compensare con un fare che tenda al ripristino, al rinnovamento, alla riformulazione. Perciò un artista è sempre un esule, anche nella quotidianità degli affetti ai quali si lega - con la speranza che lo aiutino a sopraffare i marosi da cui è sempre minacciato: quelli della perdita totale di un filo di collegamento con l’umanità divenuta massa informe. Perché da essa la sua vulnerabilità sempre esposta non sa prescindere del tutto.
E’ questa la vera diversità: quell’essere dentro-fuori, esule volontario e bandito - oppure teso a una riunificazione che superi il repulsivo rifiuto di ciò in cui ci riconosciamo uguali.
La modernità ha elaborato stratagemmi svariati - un sistema complesso e ben oleato - per individuare le nature artistiche più flessibili e addomesticabili, da chiamare al successo.
Ma qual è la dimensione interna dell’artista di successo? E’ quella del distacco, della distanza, dell’estraniamento, rispetto all’opera, oppure dell’appartenenza sempre e nonostante tutto? Chi può dirlo? Il sistema è tale da riuscire perfino a sottrarre la coscienza artistica - grazie ad artifizi e tagliole elaboratissime - alla percezione della propria solitaria mancanza di un posto certo nel mondo. Gli artisti di successo rimediano intrecciando relazioni fra loro - creando (fingendo) connessioni comunitarie nel cui intreccio si possano fingere a casa - non più esuli, ma installati nel cuore di un’esistenza i cui confini visibili si fanno rassicuranti. E l’arte, spesso, si fa pura techné. Un fare sapientemente autocosciente, finalizzato a scopi positivi che svelenino l’aria intorno. L’ “aria di famiglia” viene ripulita dai vapori originari - avvertiti come patogeni.
La famiglia non è più quella dispersa nella moltitudine informe dei più, in un raggio che tocca il limite, il margine che separa l’esistente dal niente. La famiglia, ora, è l’insieme degli operatori di successo - che sanno di esistere perché lo proclama il sistema. L’aria che circola all’interno della loro comunità ristretta è quella di “famiglia allargata” in senso odierno - ossia legata da vincoli indiretti, obliqui, multivalenti. Non c’è più l’ansia del doversi trovare. Ora, quell’ansia la si può solo fingere - una dimensionalità sancita e riconoscibile dell’esistenza provata dall’arte. Mentre invece gli altri - artisti portatori innocenti di un carattere ontologicamente destinale che li segna fin dall’inizio - continuano a fingere un fare che li salvi dal deserto dell’ in-differenza.
La finzione - in entrambi i segmenti - resta il filo che collega l’individualità all’origine.
(Forse si potrebbero dire le stesse cose di tutti gli uomini. La differenza sta nel fatto che per gli artisti la mancanza ontologicamente fondante è avvertita come sofferenza, non riconducibile ad alcuna cosa che possa essere barattata o acquistata con strumenti forniti dalla modernità.)
Teresa Nastri (2001)
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