Con il primo giorno del mese di
Thot cominciò il periodo che per il resto della
mia giovinezza avrei ritenuto il più sereno e straordinario di tutta la mia vita:
quello che mi accostava alla scrittura, il più grande dei misteri.
Divenni una
seba, un’allieva di Thot, e assieme ad altre ragazze fui ammessa a
frequentare la
Ot-seba, la Camera d'Insegnamento. In verità, le nostre sebau, le
maestre sacerdotesse, o
nebef, come preferivano farsi chiamare, per rafforzare
nei nostri spiriti il loro ruolo di superiorità, preferivano tenere le lezioni
all’aperto, in giardino. Sedute in circolo intorno alla maestra, seguivamo le
lezioni all’ombra di un sicomoro e al termine andavamo tutte all'assalto dei
frutti di cui l'albero era carico; maturi e succosi, in quella stagione. Quanta
emozione, quel primo mattino, quando ci consegnarono gli attrezzi per
scrivere: la tavoletta di legno ricoperta di gesso, la tavolozza con i colori rosso
e nero, la borsa con l'acqua e la penna in stelo di papiro. Ci misero tra le mani
anche il "Libro di Menit", un sussidiario per imparare a leggere e scrivere,
pieno di segni, disegni e linee strane e contorte: i
medu neter, i "geroglifici",
che per noi non avevano ancora alcun significato. Per realizzarli bisognava
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copiarli e ricopiarli. A lungo e con infinita pazienza. Occorreva raggiungere
grande precisione perché a distinguere un segno dall'altro poteva essere anche
un minimo dettaglio apparentemente insignificante. La più piccola inesattezza
poteva creare confusione. Nella rappresentazione di un'anatra, ad esempio, la
coda più sottile poteva dare al segno un suono e un significato diverso. Non era
davvero facile né semplice impadronirsi del potere magico della parola scritta.
Tutte quelle regole, la composizione dei segni, la loro pronuncia, i loro molti
significati, finivano a volte per creare nelle nostre testoline una gran
confusione. Qualche volta mi chiedevo se non ci fossero accorgimenti che
contribuissero a rendere un poco più agevole la lettura e perché mai Thot non
mi venisse incontro con un sistema più semplice.
Ero felice. Ero felice di sciogliere enigmi che per molti erano pericolosi o
addirittura proibiti; felice che il velo di quel mistero si stesse squarciando per
mostrarmi tutte le sue meraviglie. Come un vero scriba, mi affezionai ai miei
strumenti di scrittura che tenevo sempre puliti e ordinati così come un medico
con i suoi strumenti chirurgici.
Non tutte, però, incontravano le stesse difficoltà. Alcune di noi riuscivano a
scrivere con tanta perfezione, come la mia amica Shannaz, da far pensare che
fosse nata con un papiro in mano, ma per altre era difficile perfino reggere
correttamente la penna. Come Nofret, che aveva fama di essere distratta e
pasticciona e con la mente costantemente occupata a inseguire sogni e fantasie
fuori da quelle mura.
“Perché sei venuta qui se ami tanto startene lontana?” le chiesi..
“Nella mia famiglia ci sono sempre state ragazze destinate a servire la dea
Hathor.- mi rispose - Così nella casa di mio padre e prima ancora nella casa di
suo padre e del padre di suo padre. La sorte è toccata a me, ma io farei
volentieri a meno di riempirmi la testa con questi segni incomprensibili.”
Nofret era la figlia minore di Menkperreseneb, Primo Profeta di Ammon e
vecchio amico del Faraone; era, dunque, nipote della nutrice reale Tayun, la
qual cosa le dava diritto di rivolgersi con familiarità a un membro della
famiglia reale.
In verità, quasi tutte le ragazze al Santuario, dopo i primi timidi approcci,
avevano finito, con disappunto della sacerdotessa Kara, per rivolgersi a me con
rispetto ma familiarmente. Non sarei stata certamente io a mortificare quello
che ognuna di loro considerava un onore inaspettato. Quanto a Nofret, proprio
per quella specie di parentela di latte con la famiglia reale, era riuscita a farsi
assegnare il posto accanto a me nella
Ot-seba. Per questo motivo mi capitava
di sbirciare sulle sue tavolette e di riscontrarvi la gran quantità di errori; come
la volta in cui, dovendo fare un esercizio di composizione, ci fu ordinato di
scrivere una frase d'elogio al Faraone. Invece di scrivere
Sa-ra, che significa
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"Figlio di Ra", e utilizzare il segno dell'anatra, che nella scrittura corrisponde
alla parola
Sa, "figlio", Nofret disegnò un passero che, piccolo e distruttore,
serviva a rappresentare il segno del male.
“Gli Dei ci liberino da simile flagello.” scherzai.
Qualcuna delle ragazze tentò di riderci sopra, ma la maestra ci ammonì tutte,
assumendo un tono assai severo:
“Capite adesso l’importanza della scrittura, figlie mie? I
medu neter, sono
“bastoni divini” a cui potrete appoggiarvi per meglio percorrere la vita che vi
attende.”
Per giorni facemmo pratica di “parole divine”, ripetendo quelle più difficili e
imparando a memoria quelle d’uso comune. Quando fummo in grado di
leggere e di copiare correttamente ogni segno della scrittura dei sacerdoti,
passammo ai Testi Classici e agli Scritti Sapienziali degli antichi Saggi.
Ogni parola, ogni verso degli "Ammaestramenti di Imhotep”, degli
"Insegnamenti di Pthahotep" o delle "Lamentazioni di Ipu-ur", ci divennero
familiari e facili come i nostri stessi nomi.
Mi ritrovai a consumare il tempo copiando e ricopiando massime moralistiche
che avevano un triplice scopo: farci apprendere l'uso della scrittura, temprare il
nostro carattere e assicurare al Tempio cospicui guadagni dalla loro vendita.
"Raddoppia il pane che dai a tua madre.
Essa ebbe gran carico in te e non ti lasciò ad altri."
"Non parlare contro nessuno, grande e piccolo.
E’ un abominio per il tuo Ka."
Queste ed altre massime, scrivevamo su tavolette di legno e ceramica,
intingendo la penna nell'inchiostro con diligenza. Insegnamenti antichi di Saggi
e Sapienti, seguendo i quali, ogni uomo poteva avvicinarsi un po' di più alla
perfezione ed alla verità divina. Ben presto fummo pronte ad usare fogli di
papiro; legno e ceramica erano serviti per gli esercizi dei primi tempi e
servivano ancora per la brutta.
Benché le sponde del Nilo fossero ricche di questa vegetazione, e anche il
Santuario ne avesse nei suoi stagni, la carta pronta all'uso era un bene prezioso
da non sciupare. Ad utilizzarla erano in pochi; sacerdoti, scribi, allievi di
scuole di grado superiore e, naturalmente, il Faraone e la corte. Per la stessa
ragione, i rotoli erano utilizzati più volte e su entrambe le facciate.
Scrivere su un foglio di papiro non era particolarmente difficile, ma le prime
volte incontrammo tutte qualche difficoltà. Secondo le regole, i Testi Sacri
andavano scritti in verticale e da destra verso sinistra; imbrattare d'inchiostro il
foglio e renderlo inutilizzabile se vi si poggiava la mano invece di tenerla
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accortamente sollevata, non era cosa rara. Occorreva aver fatto buona pratica
sulle tavolette di legno se non si voleva rovinare un foglio di papiro.
Nofret non faceva che lamentarsi delle mani sporche d’inchiostro e
manifestava la sua preferenza per fusi e telai, ma non tutte erano così disadatte
a tenere una penna in mano. Shannaz riusciva a scrivere anche quattordici
segni per volta, quando invece alle altre occorreva intingere più volte la penna
nell’inchiostro per tracciare lo stesso numero di segni.
Scrivere era bello. Affidare a un pezzo di pietra, tavola o papiro un messaggio
che vagabondava nella mente, era magico.
La Scrittura! Nuove sensazioni erano maturate pian piano dentro di me con la
scoperta della scrittura. Il suono che diventava figura viva, il grido che usciva
dal silenzio, il mistero che diventava conoscenza, esaltavano il mio spirito. Mi
pareva di averli avuti dentro di me da sempre, quei segni. Nascosti,
inconsapevoli, sopiti. Improvvisamente, li "sentivo" diventare "cosa viva",
come partoriti da un grembo fecondo.
I
medu neter, che Thot aveva donato all'uomo per consentirgli di elevarsi,
erano come spiritelli che prendevano vita staccandosi dal foglio di papiro e
penetrando dentro di me. Un'altra sensazione, giorno dopo giorno, stillando nel
cervello quelle massime, si fece strada guizzando dal profondo dello spirito: la
consapevolezza dell'essere donna e dell'essere Colei che dà la Vita. Compresi
la saggezza delle mie educatrici che agivano non solo per la completezza del
mio spirito, ma anche e soprattutto, per la salvezza della mia vita ultraterrena.
Una sola svista, spiegavano le nostre
sebau, un solo errore, nel copiare quelle
formule magiche, avrebbe causato danno a chi ne avesse fatto uso: ai defunti,
ad esempio, che dovevano servirsene per allontanare insidie e pericoli e per
convincere i Guardiani delle sette
Arrit ad aprire loro le porte della Duat. Ogni
anima defunta deve conoscere alla perfezione, una ad una, le parole di quelle
formule se non vuol correre il rischio di restare per l'eternità prigioniera in un
mondo di tenebre.
Per questo cercavo di curare al massimo la forma di ognuno dei segni; anche
dei più semplici. Né dimenticavo i determinativi posti alla fine della frase, solo
perché quei segni non erano letti. Erano utili invece perché, aiutavano a
chiarire il significato.. Erano importanti soprattutto per le formule e gli
incantesimi riportati dai Testi funerari. E tutti conoscono l’importanza di questi
Testi, necessari ai defunti per arrivare incolumi e ben forniti di magia al
Tribunale di Osiride e dei Quarantadue.
Il Libro della Am-Duat, il Libro delle Porte, il Libro delle Caverne ed altri
ancora, dovevano essere per il defunto come la carta nautica per il marinaio:
esatta e senza errori.
Per questo le nostre educatrici erano assai severe e volevano che i rotoli di
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papiro del Santuario fossero corretti e perfetti. Non come quelli che si
vendevano nelle tante bottegucce di scrittura che spuntavano intorno a Templi
e Santuari come i pivieri nella stagione dell'inondazione, pieni di errori e
sviste. A redigerli, erano scribi ignoranti e senza timor di Dio; gente
indifferente alla sorte dei poveri defunti che n’avrebbero fatto uso. Privi di
scrupoli e desiderosi solo di guadagni, non li copiavano dai rotoli custoditi
nelle giare o in altri contenitori, ma direttamente da pitture parietali. Svogliati e
distratti, finivano per cambiare la disposizione dei segni o per commettere altri
errori. Qualcuno arrivava perfino a saltare parole e frasi intere. (continua)
brano tratto dal libro AGAR
di Maria Pace
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