Se l’esterno della locanda era tetro, l’interno, invece, riservò qualche sorpresa. Era spaziosa e ben illuminata, disseminata di tavole e panche e con una scala di legno che portavaa quelli che dovevano essere i caenacula, al piano di sopra. Di fronte alla porta d’entrata, contro la parete in fondo, era accostato un lungo bancone sul quale poggiavano coppe, tazze e vassoi pieni o vuoti.
C’era una donna seduta dietro quel banco e guardava tutti con aria sorniona. Non più giovane, grassa e voluminosa, sedeva su uno sgabello troppo stretto da cui debordava abbondantemente. Squadrò anche i due nuovi arrivati da capo a piedi, prima di porgere loro il suo saluto.
Sulla destra ardeva un camino cheoltre a rischiarare serviva per arrostire salsicce e un cosciotto di capretto le cui carni sfrigolanti inondavano l’ambiente di un delizioso profumino; altra luce arrivava da torce appese al muro e da una lampada che veniva giù dalsoffitto. Lungo la parete sinistra correvano due file di mensole piene di vasellame; nell’angolo, una nicchia custodiva i Lari; nell’angolo opposto, in una seconda nicchia, avevano preso posto alcuni oggetti che Marco riconobbe essere appartenuti a Nerone:un dono di Cesare custodito come una reliquia!
Marco e Lucio sedettero al tavolo vicino alle scale e Lucio esordì:
“E’ vero che qui si serve dell’ottimo cinghiale alla salsa di pinoli.”
L’oste si avvicinò al tavolo. Lasua faccia, larga, rubiconda e piatta, si distese in uno sfolgorante sorriso. Grasso e massiccio, tanto da doversi girare di lato per circolare tra i tavoli, era montagna di carne portata con allegra disinvoltura. Odorava di vino, olio e sudore.
“E’ quello che sto aspettando da un pezzo anch’io.- esordì qualcuno seduto a un tavolo - Forse quel cinghiale non è stato ancora cacciato!... Salute, tribuno Marco Valerio e anche a te che non conosco, legionario!”
Marco si voltò a guardarlo.
Labbra grosse, volto rubicondo,occhio appannato, indice di un trasporto per il Falerno, l’uomo aveva ancora il braccio levato in atto di saluto.
“Salute a te, Lacone!” rispose Marco, intanto che la ostessa, lasciato il bancone, si avvicinava premurosa.
“La buona cucina vuole il suo tempo! – disse la donna - Per gustare il “cinghiale alla salsa di pinoli”
di Arrunzia Claudia non bisogna avere premura. Perciò, torna ai tuoi dadi e aspetta.”
Arrunzia Claudia. La chiamavano così, per via del suo passo claudicante, ma avrebbero potuto bene affibbiarle anche il soprannome di Arrunzia Crassa, tanto era grossa e massiccia.
Il suo aspetto richiamava più quello di un atleta che di una donna; più simile a Ercole che a Diana. Ad azzopparla era stata l’incornata di un toro nella villa rustica di un patrizio,dove era stata condotta schiava dalla Siria e dove, proprio per quel suoaspetto insolito per una donna, era stata respinta e dileggiata. Perfino al mercato degli schiavi, dove il padrone aveva finito per metterla in vendita,era
stata disdegnata quasi da tutti.
Quasi da tutti, ma non da tutti .Non da Metrobio, che aveva visto in quell’Ercole al femminile, dalle spalle quadrate, le braccia muscolose e lo sguardo mansueto come quello di un bove, un ottimo investimento per sé e per l’attività che intendeva aprire.
Metrobio era di quelli che non disdegnavano il lavoro e a Roma quella dell’oste era una delle attività più remunerative per chi avesse avuto voglia di lavorare e fosse a conoscenza di qualche buona ricetta. Possibilmente esotica!
Arrunzia possedeva quelle qualitàe per Metrobio acquistarla era stato un ottimo affare. Affrancarla e poi sposarla, era stato un affare ancora maggiore: Claudia conosceva certe ricette segrete e afrodisiache, tali da richiamare avventori di ogni sesso ed età, come il latte appena munto attrae le mosche.
Claudia si era attaccata al marito-padrone con la dedizione assoluta di un cane fedele, ma, per ragioni imperscrutabili, anche l’oste aveva finito per affezionarsi a lei con la stessa dedizione. Così, senza nemmeno rendersene conto, Metrobio aveva finito per ritrovarsi appese al proprio collo quelle stesse catene che aveva messo al collo di lei, fino al ribaltamento totale della situazione, che vedeva Arrunzia padrona di Metrobio. Una padronaaffettuosa e garbata, per la verità, tanto che la gente cominciò a chiamarli Bauci e Filemone, come i due della leggenda del Diluvio, risparmiati da Giove e trasformati in tiglio e quercia.
brano tratto dal libro: LA DECIMA LEGIONE - Panem et Corcenses
di Maria Pace
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