Coma, semi-coma...
(Sogno, o delirio post-traumatico?)
Una forma tondeggiante, leggera, perché la sostanza di cui è fatta è svuotata di ogni peso specifico. Galleggia, come l'altra: una sagoma flessuosa, sottile, con macchie dello stesso colore bruno, simile a crosta ferrigna, ma priva di spessore. Anche questo s'indovina a vista. Un colore più denso, qui e là, disegna i rilievi, i chiaroscuri argentati delle squame nella parte inferiore, che termina con la piccola coda di pesce a due punte. Come certi mappamondi in cui la densità della materia è segnalata dal colore più marcato delle incrostazioni che raffigurano le terre emerse. (Ma forse anche questa è una considerazione a posteriori - fatta in stato di semiveglia; del resto il confine fra le due dimensioni dell’esistenza è spesso così sottile da non potersi percepire con certezza.)
La forma sottile ha la consistenza di un'icona e scivola lungo il perimetro circolare della vasca trasparente che contiene il tutto. Per l'occhio che osserva dall'esterno (ma in quale corpo si tenga è impossibile dirlo, anche con l'aiuto del ricordo cosciente - probabilmente a causa del condizionamento che deriva dall'immediatezza percettiva del visibile ), è una sirenetta che si muove in quello che appare come il suo naturale elemento: una massa liquida, fluorescente, percorsa da una misteriosa energia che la trascina con sé. La parte frontale è rivolta verso l'osservatore, che vede solo quella. (Alla luce di una riflessione successiva ci si rende conto che solo lo spostamento della forma rende in qualche modo visibile il movimento della massa fluida, che s’indovina compatta e forse impenetrabile).
Più a zonzo, spezzettata, la direzione di marcia descritta dalla forma tondeggiante. L'effetto erratico forse è dovuto a un qualche contrasto - o resistenza - con lo stream. Un osservatore pedante potrebbe pensare che una tendenza autonoma produca l'attrito che rende il percorso così accidentato. La forma appare del tutto irrelata col resto, perfino con lo stream di forza trainante.
L'acqua all'interno della vasca trasparente gira e gira... da destra verso sinistra, in perfetto senso antiorario... Le strane sagome sembrano rincorrersi.
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Ombre bianche e scure si muovono a tratti. A volte offuscano ogni altra visuale. Bubuum, bubuum, passiamo sotto un ponte o una galleria. Tac... tac... Urtiamo contro pareti troppo ravvicinate o porte strette. Su e giù, destr-sinist... Le rotte del mondo, sottosopra, non sono più obbligate.
Ma no! scuote la testa e l'universo cambia il senso di marcia: le stelle fanno una giravolta turbinosa e ora può osservarle solo dalla posizione capovolta, coi piedi che puntano verso il cielo. La nausea attacca violenta, ha paura di vomitare sulle stelle che ammiccano sotto i suoi piedi... La testa girata verso la spalla perde liquidi acidi, che finiscono in un panno messo lì da qualcuno. Il vomito trabocca a intermittenza.
"Teresa, ciao! Ma cosa fai in questa foresta?"
"Maria Rosa... sei sola? Aiutami, ti prego".
La faccia da Topogigio della piccola è alterata dallo sforzo di riportare lei nella posizione originaria. Poi scompare.
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Non so se seppi già durante il sogno che la forma tondeggiante era la mia testa, alleggerita di tutti i fardelli che l'esistenza si trascina dietro. Quei fardelli pesavano tutti sulla parte rimasta di qua, nel vortice di ciò che si trasforma.
Sogno o delirio, quella parte l'ho ancora incisa sulla retina che conserva le immagini, o in qualche altro punto dentro di me. E' una forma tozza e sgraziata, grossa e di colore mattone, poggiata in terra a qualche metro dalla vasca trasparente e a una ventina di centimetri dal punto dove dovrebbero trovarsi i miei piedi, stando alle leggi della prospettiva. E la vasca è piena non di materia liquida come ho creduto prima, ma di pura luce, densa e assoluta... E mi sembra di essere stata sempre lì, accanto alla grossa testa pesante e tozza, a guardare quel serbatoio di luce su cui navigano le forme pure. Ma non so più afferrare il senso di quello smembramento: forma di qua, materia di là, visioni non mediate da un sistema organico. Com'è possibile vedere senza un occhio aperto? Ecco perché ora non so più scindere quella vista dalla mia presenza fisica e sono costretta a percepirmi come contenitore dell'occhio che guarda. Ma la sirenetta non mi somiglia, purtroppo. No, non le somiglio... lei è una versione nuova della donna di Chagall che attraversa orizzontalmente l'aria "Sopra la città" - io sono in tutto il mio peso e occupo molto più spazio, ovunque mi trovi.
A 3 ore dal primo risveglio, sentivo il peso del dolore che nei momenti brutti identifica la vita e un pulsare ininterrotto nel padiglione auricolare sinistro. Era come il passaggio di una ventola regolata per scandire i secondi. Mi preoccupava, non sapevo a quale orologio fosse collegata, né quale segnale cercasse di trasmettermi. (Due settimane più tardi, a casa, cercai di contare i colpi - o pulsazioni - ma mi fermai a 135, per stanchezza. Ogni tanto si arrestavano per il tempo di qualche battuta...)
La tensione iniziale, divenuta ben presto sofferenza martellante, da tutta la scatola cranica si addensava sulla zona perioculare, col peso di una corona di ferro che premesse in cima, sulla parte anteriore. Dalle profondità delle orbite si trasmetteva alle strutture mandibolari, e da qui si riverberava sul punto più basso della gola. Un'efficiente rete connettiva svolgeva scrupolosamente la funzione di diffondere il dolore.
Il braccio faceva male, nella posizione obbligata appeso a un filo. Era inchiodato e fermo sul lenzuolo bianco che spuntava da sotto la coperta marrone chiaro... troppo chiaro perché non si vedesse che era sporca. Sotto la guancia, dall'altro lato, pungeva il ruvido delle grinze nel panno messo lì per raccogliere il vomito. Inutile cercare di stenderle quelle pieghe, poi mi accorsi che dipendevano da un'arricciatura tutto intorno. (Solo più tardi mi resi conto che si trattava di una specie di mutandone - destinato probabilmente ai degenti che non riescono a controllare i moti intestinali.)
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A due anni di distanza, mi capita di pensare che la morte può essere davvero un trapasso del tutto indolore. Io non conservo alcuna memoria dell'aggressione di quel venerdì sera, né del colpo alla testa, né di tutto ciò che ne è seguito fino alla domenica, quando vennero mio fratello e mia sorella. Soffrivo certamente almeno come nei giorni successivi, ma ciò che mi fa ricordare di quella domenica, isolata dalla contiguità temporale del prima e del poi, è il fatto che c'erano loro.
Se fossi morta in quei primi due giorni, sarebbe stato senza la coscienza di una sofferenza, e a quest’idea l'orizzonte di morte di cui parla Heidegger come dell'unica certezza assoluta che ci accomuna tutti appare meno fosco. Una semplice uscita di scena... anzi, no! E’ la scena che sparisce e rende superfluo il primo attore.
Silvana mi guarda costernata e mi sorprende con una domanda: ma tu l’accetti questa consapevolezza? Vorrei risponderle: credi forse che potrei rispedirla al mittente?
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