Pubblicato il 29/01/2011 21:43:27
La scuola siciliana si può considerare il primo vero laboratorio organizzato di quella nuova lingua che si andava imponendo e che veniva chiamata "volgare. Ma perché "volgare"? Perché era parlata dal popolo, ovvero da un ceto basso, ovvero ancora dal "vulgus", che divenne col passare degli anni "volgus", per trasformarsi in "volgo" da cui "volgare".
Quella della trasformazione delle parole è materia interessante. Facciamo un esempi brigante e ministro. Oggi essere un brigante equivale ad essere un criminale, un delinquente, uno da evitare. Se sei - invece - un ministro sei persona potente, rispettabile e degna di considerazione. Ma è così da circa 3 secoli. Andiamo al 1200/1300 e le cose si capovolgon brigante era colui che comandava una brigata, ovvero un gruppo di attori che si recava nelle regge dei potenti a tenere spettacoli. Il brigante era degno del massimo rispetto perché era colui che indiceva gi spettacoli e se rimetteva denaro, pagava di tasca propria; il ministro, invece, era il servo più fedele, ma sempre servo era! Provate a cercare altre parole il cui valore e significato s'è modificato nel tempo… Ma non divaghiamo e torniamo alla Scuola siciliana.
Il nome "Scuola siciliana" si deve a Dante che nel "De vulgari eloquentia", definì "siciliana" tutta la produzione antecedente quella "toscana". Affermava infatti il Sommo Poeta che "per il fatto che molti poeti indigeni poetarono solennemente tanto che tutto ciò che a loro tempo producevano i migliori tra gli Italiani, appariva dapprima nella corte del sovrano e per il fatto che la corte aveva sede in Sicilia, è avvenuto che tutto ciò che si è prodotto di poetico prima di noi, fu detto ". Non c'è che dire: uno spot niente male!
Ma ad onore del vero c'è da dire che alla corte federiciana, non si svilupparono solo opere letterarie in volgare, ma c'erano studiosi di filosofia, di scienze, di giurisprudenza e quindi non è un caso che alla Scuola siciliana appartenesse anche Michele Scoto, formatosi ad Oxford, a Parigi, a Bologna e a Toledo dove studiò la cultura araba che portò in occidente. E fu grazie agli studi dello Scoto, ripresi da Stefano Protonotaro, che quest'ultimo potè tradurre due opere arabe: "Liber rivolutionum" e "Flores astronomiae",
Ma chi era Federico II?
Federico II era nipote del Barbarossa e fu incoronato Re nel 1226. regnò fino al 1250, anno della sua morte e gli succedette il figlio Manfredi che nel 1266 fu sconfitto da Carlo d'Angiò.
Come si vede, la Scuola siciliana ebbe vita breve perché si condensa tutta nei 24 anni di regno di Federico II, anche se Manfredi provò a dare un seguito ma non essendo illuminato come il padre, quel seguito fu un decadentismo annunciato. Ciò contrasta con quello che afferma Dante, ma egli inserisce nella Scuola siciliana "tutto quello prodotto prima dei toscani", prendendo - a mio avviso - una paurosa cantonata perché sia la Scuola religiosa umbra sia quelle più modeste (ma non meno importanti) lombarde e venete, ed anche l'influenza provenzale, non possono essere considerate siciliane.
La scuola siciliana si sviluppò perché lo stesso Federico II era amante dell'arte del poetare e sappiamo bene che se una cosa non si ama non ha futuro! E Federico amava la poesia. Tra le sue opere ci restano tre composizioni: "De la mia distanza" , "Poi ch'a voi piace amore" e "Misura, provvidenza e meritanza".
E proprio quest'ultima pongo alla vostra attenzione:
Misura providenzia e meritanza
Misura, providenzia e meritanza fanno esser l'uomo sagio e conoscente e ogni nobiltà bon sen[n]'avanza e ciascuna ric[c]heza fa prudente. Nè di ric[c]heze aver grande abundanza faria l'omo ch'è vile esser valente, ma della ordinata costumanza discende gentileza fra la gente. Omo ch'è posto in alto signoragio e in riccheze abunda, tosto scende, credendo fermo stare in signoria. Unde non salti troppo omo ch'è sagio, per grande alteze che ventura prende, ma tut[t]ora mantegna cortesia.
Evito la traduzione perché è molto comprensibile. Si può notare l'uso specifico di taluni termini che si integrano col verso dando una musicalità unica ad un brano che, se fosse stato scritto da Dante sarebbe divento oggetto di studio.
Ma come in tutte le cose, ruolo fondamentale lo gioca la fortuna e Federico II ne ebbe iosa quando alla sua corte si presentò uno sfrontato giovanotto che rispondeva al nome di Michele e veniva da Alcamo. Conosciuto oggi come Cielo D'Alcamo. Egli propose a Federico una sua composizione che aveva titolato "Rosa fresca e aulentissima", in seguito chiamata "Il Contrasto". Se vi va potete leggere questo capolavoro della Scuola siciliana nel settore "poesia", perché c'è un mio lavoro proprio su Contrasto.
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La corte di Federico diventa così un punto di ritrovo di giovani scrittori e diventa soprattutto un esempio di come l'arte possa superare le diversità sociali, culturali ed anche religiose, formando un ceto culturale che abbraccia il nobile, il militare, il servo, abbattendo le barriere classiste a vantaggio della poesia.
E vediamoli questi poeti che hanno segnato un'epoca:
Jacopo da Lentini, era notaio, a lui si deve l'invenzione del sonetto, ed è stato alla corte di Federico II dal 1233 al 1240;
Giacomino Pugliese, il cui vero nome era Giacomo di Enrico e veniva da Morra, era un funzionario pubblico;
Guido delle Colonne, giudice a Messina e frequentatore della Corte di Federico dal 1243 fino alla morte del Re avvenuta nel 1250;
Stefano Protonotaro (il cognome dice tutto: notaio), colui che tentò di mantenere viva la Scuola sotto il regno del figlio di Federico II, Manfredi;
di Cielo d'Alcamo s'è detto;
Pier delle Vigne, Gran Cancelliere, è sicuramente la figura più complessa e importante della scuola siciliana. Nasce a Capua nel 1180 e ben presto si fa notare come compositore di versi tanto che Federico lo chiama alla sua corte e lo promuove prima scrivano, poi funzionario e quindi notaio, fino alla massima carica di Gran Cancelliere dell'Impero. Accusato di tradimento nel 1249, fu arrestato e, urlando la propria innocenza, si tolse la vita.
Riprenderemo inseguito a conoscere i poeti della Scuola siciliana. Ora soffermiamoci su Federico II, sulla sua figura di uomo politico, di uomo di potere, di mecenate e anche di uomo fuori dal tempo che viveva.
L' obiettivo culturale, oltre al progetto politico generale che intendeva realizzare, era di costituire attorno alla corte un centro culturale autonomo che facesse concorrenza a Bologna e Parigi, che erano i centri di cultura - grazie alle loro Università - che più attraevano gli studiosi.
La situazione politica è però complessa, Federico non controlla saldamente i territori di cui rivendica il dominio, ed ha a che fare con una realtà molto più frammentata ed eterogenea. Fortissime sono le spinte centrifughe e infatti la sua "riforma politica" non avrà seguito a causa della improvvisa sua morte (avvenuta a Castel Fiorentino [Lucera] nel 1250).
La sua è una riforma di tipo "imperiale" che vuole essere unitaria, continentale, il canto del cigno del feudalesimo, nel momento in cui altre forze politiche ed economiche (i Comuni, la borghesia mercantile ecc.).
Riprendiamo la conoscenza di alcuni autori della scuola siciliana e ripartiamo da:
Ruggieri d'Amici, superba la sua "Sovente amore na ricuto manti".
Tomaso di Sasso, di cui ricordo due opere, "L'amoroso vedere" e il "D'amoroso paese".
Re Giovanni, leggete questa splendida opera: "Donna, audite".
E poi Odo delle colonne, Rinaldo d'Aquino, Paganino da Serenano, Jacopo d'Aquino, Jacopo Mostacci (del quale segnalo "Amore ben veio", "A pena pare", "Umile core" e "Mostrar vorria in parvenza").
Segnalo ancora Ruggerone da Palermo, Mazzeo di Ricco, Re Enzo, Perzival Doria di cui apprezzo molto - e ve la propongo - "Amore m'avè priso":
Amore m'avè priso
Amore m'a[ve] priso d'alto mare salvagio; posso ben, ciò m'è aviso, blasmar la segnoria, che già m'à fatto oltragio, chè m'à dato a servire tal donna, che vedire, nè parlar non mi vole, onde mi grava e dole si duramente - ca, s'io troppo tardo, consumerò ne lo doglioso sguardo. Pec[c]ato fece e torto Amor, quando sguardare mi fece la più bella, che mi dona sconforto quando degio alegrare, tanto m'è dura e fella. Ed io per ciò non lasso d'amarla, oi me lasso; tale mi mena orgoglio as[s]ai più che non soglio, sì coralmente - eo la disio e bram Amor m'à preso come il pesce a l'amo. Eo son preso di tale che non m'ama neiente ed io tut[t]or la servo; nè 'l servir non mi vale, nè amar coralemente. Dunque aspetto, ch'io servo sono de la megliore e seraio con amore d'amare meritato . . . [-ato] . . . [-ente] - che lo servir non vaglia, eo moragio doglioso sanza faglia. Anche in questo caso ritengo inutile una traduzione stante la semplicità del brano stesso. Tra i poeti cito ancora Compagnetto da Prato,(sarà mica parente del nostro Misterbraun, al secolo Marco da Prato?) Filippo da Messina, Folco di Calavra, Neri Poponi, Guglielmo Beroardi, Folcacchiero da Siena, Ugo da Massa conte di Santafiora, Inghilfredi e Arrigo Baldonasco. Per finire vi propongo un'opera a me cara perché da me rivisitata. È di…..vediamo se indovinate, si intitola
Nostalgia d'amore
La bocca profumata e i capezzoli del seno le cercavo, fra le mie braccia la tenevo. Baciandola lei mi diceva:
non state a lungo lontano perché non è bello lasciare l'amore a lungo solo >.
Allora quando me ne andai e dissi : - a Dio vi raccomando -, la bella guardò verso me sospirando e piangendo. Tanti erano i sospiri che a fatica mi rispose quella dolce donna mia non mi lasciava sortire.
Io non vi fui così lontano che il mio amore vi obliasse, e non credo che Tristano Isotta tanto amasse. Quando vedo la bella tra le donne apparire la gioia mi toglie ogni dolore E mi rallegra la mente il suo gioire
Spero d'essere stato esaustivo, anche se è difficile contenere tutto in poche pagine.
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