Pubblicato il 11/03/2012 22:50:34
Perché la vita non basta
A volte a notte il demone non viene, e c’è respiro e posso riposare. E ad occhi aperti al buio, senza angoscia, nel vuoto che si allarga come un fiume, mi affido quieto alla corrente e ascolto il tenero rumore della vita. E’ qui dove tutto è cominciato, un dito sotto, tra il bordo e la schiuma, la parte vuota del bicchiere pieno; e qui poi tutto alla fine ritorna, quando il genio esplode e l’uomo collassa, sotto il peso di oceani e cattedrali. E nella linea che segna l’ammanco, un passo prima dell’ultima abiura, non so a che scopo ancora mi domando questo chi è, da me che cosa vuole, se sono solo nello specchio vuoto e mia è la voce che implora e condanna, nell’aula chiusa del mio tribunale. La bellezza salverà il mondo, forse, ma non potrà salvare i salvatori, e sempre ammesso che ci sia speranza e che non giunga troppo fiacca al segno, e flebile nell’ombra della sera resti il fanale acceso a un viaggiatore che ha rinunciato a mettersi per strada, e resta al caldo, qui nel bar accanto, tra slot machines e donne su sgabelli che parlano e che mandano messaggi, bevendo vodka in attesa che spiova.
Autunno 2011
ED ECCO LA BELLEZZA CHE SALVA (è quella semplice, ingenua, popolare...) TOUT COURT...
“No, - disse il portinaio – Caruso era il soprannome di un soldato napoletano, un portaordini che doveva tenerci collegati con il comando di compagnia nel primo inverno di guerra. Noi allora eravamo in un caposaldo sopra la val Sugana a millequattrocento metri di altezza, e non avevamo il telefono. I portaordini uscivano alla sera con il buio e rientravano prima di giorno; ma gli austriaci avevano messo una fotoelettrica in alto dietro le loro trincee, e quando l'accendevano sembrava di essere a teatro, con quel cerchio di luce che si spostava sulla neve come su un immenso palcoscenico, e con il buio della notte tutt'attorno... Avevano già ammazzato tre portaordini: un Pedretti di Bergamo, un Porzio di Casale e un altro di Rovigo che tutti chiamavano Bistecca, non so più perché. Il quarto portaordini doveva essere questo napoletano di cui sto parlando, un certo Esposito... sì, mi sembra che il suo vero cognome fosse Esposito, e che il nome fosse Pasquale... Pasquale Esposito.” Nella sala del comitato patriottico il silenzio, adesso, era assoluto. Alcuni ascoltatori anziani erano venuti a sedersi di fronte all'oratore, per sentire meglio; e c'era un uomo quasi completamente sordo, il commendator Porzano, che gli teneva il cornetto acustico a pochi centimetri dalla bocca. “S'avvicinava l'ora dell'uscita serale, – disse il portinaio – ed Esposito era più morto che vivo per la paura. Chi non lo sarebbe stato, nei suoi panni? Per mandarlo fuori dalla postazione bisognò fargli bere un'intera bottiglia di cognac. Alla fine, a calci e spintoni, uscì nel buio e scomparve; ma a metà della pista si mise a cantare un brano d'opera, non proprio a squarciagola ma nemmeno piano. “Che gelida manina, se la lasci riscaldar...” A noi che eravamo in trincea venne la pelle d'oca. Pensammo: ha bevuto troppo e adesso i crucchi lo ammazzano. Si accese la fotoelettrica; il nostro portaordini era là, vestito di bianco in mezzo alla neve, e dalla trincea dei crucchi una voce gridò in italiano: Caruso! Canta più forte! Sono stati gli austriaci a chiamarlo per primi Caruso. Allora lui riprese a camminare nella neve senza cercare di ripararsi, proprio come se fosse stato su un palcoscenico, mentre la luce della fotoelettrica lo inquadrava e lo seguiva, e camminando cantava con una bella voce da tenore: “Cercar che giova? Al buio non si trova. Ma per fortuna è una notte di luna...” Quando arrivò in fondo al vallone si voltò prima di uscire di scena, ci fece un inchino e ci ringraziò degli applausi con un gesto, anzi a dire il vero i gesti furono due, uno rivolto a noi e l'altro rivolto ai crucchi, perché anche loro lo stavano applaudendo; poi la fotoelettrica si spense e il vallone tornò buio. Be' – disse il portinaio dopo un breve silenzio – forse voi non mi crederete, ma vi giuro sul mio onore che questo fatto è accaduto davvero e che si è ripetuto ancora, nelle notti successive, almeno altre quattro volte... “
Mi è inevitabile “risponderti”con alcuni pezzi della Szymborska...
Guarda come tratta lei l'arrivo del... demone... e poi si continua con riflessioni e variazioni sul massimo sistema VITA...
Un'idea
Mi è venuta un'idea per una poesiola? Per una poesia? Bene – le dico – resta, ne parliamo. Devi dirmi di più su di te. Al che lei mi sussurra qualcosa all'orecchio. Ah, si tratta di questo – dico – interessante. Già da tanto mi stanno a cuore queste cose. Ma al punto di scriverci una poesia? No, no di certo. Al che lei mi sussurra qualcosa all'orecchio. E' solo una tua impressione – rispondo - sopravvaluti le mie forze e capacità. Non saprei neanche da dove cominciare. Al che lei mi sussurra qualcosa all'orecchio. Ti sbagli – le dico – scrivere una poesia concisa e breve è molto più difficile che scriverne una lunga. Non tormentarmi, non insistere, è inutile. Al che lei mi sussurra qualcosa all'orecchio. E va bene, ci proverò, visto che insisti. Ma già ti dico con quale risultato. La scriverò, strapperò e butterò nel cestino. Al che lei mi sussurra qualcosa all'orecchio. Hai ragione – le dico – ci sono pur altri poeti. Alcuni lo faranno meglio ancora. Posso darti nomi e indirizzi. Al che lei mi sussurra qualcosa all'orecchio. Sì, certo che li invidierò. Noi ci invidiamo anche poesie mediocri. Ma questa magari dovrebbe... deve avere... Al che lei mi sussurra qualcosa all'orecchio. Appunto, le caratteristiche da te elencate. Però è meglio cambiare argomento. Ti andrebbe un caffè? Al che lei fece soltanto un sospiro. E cominciò a svanire. E svanì.
La breve vita dei nostri antenati
Non arrivavano in molti fino a trent’anni. La vecchiaia era un privilegio di alberi e pietre. L’infanzia durava quanto quella dei cuccioli di lupo. Bisognava sbrigarsi, fare in tempo a vivere prima che tramontasse il sole, prima che cadesse la neve.
Le genitrici tredicenni, i cercatori quattrenni di nidi fra i giunchi, i capicaccia ventenni – un attimo prima non c’erano, già non ci sono più. I capi dell’infinito si univano in fretta. Le fattucchiere biascicavano esorcismi con ancora tutti i denti della giovinezza. Il figlio si faceva uomo sotto gli occhi del padre. Il nipote nasceva sotto l’occhiaia del nonno.
E del resto non si contavano gli anni. Contavano reti, pentole, capanni, asce. Il tempo, così prodigo con una qualunque stella del cielo, tendeva loro una mano quasi vuota e la ritraeva in fretta, come pentito. Ancora un passo, ancora due lungo il fiume scintillante che dall’oscurità nasce e nell’oscurità scompare.
Non c’era un attimo da perdere, domande da rinviare e illuminazioni tardive, se non le si erano avute per tempo. La saggezza non poteva aspettare i capelli bianchi. Doveva vedere con chiarezza, prima che fosse chiaro, e udire ogni voce, prima che risonasse.
Il bene e il male – ne sapevano poco, ma tutto: quando il male trionfa, il bene si cela; quando il bene si mostra, il male si acquatta. Nessuno dei due si lascia vincere o allontanare a una distanza definitiva. Ecco il perché d’una gioia sempre tinta di terrore, d’una disperazione mai disgiunta da tacita speranza. La vita, per quanto lunga, sarà sempre breve. Troppo breve per aggiungere qualcosa.
Un appunto
La vita – è il solo modo
per coprirsi di foglie,
prendere fiato sulla sabbia,
sollevarsi sulle ali;
essere un cane,
o carezzarlo sul suo pelo caldo;
distinguere il dolore
da tutto ciò che dolore non è;
stare dentro gli eventi,
dileguarsi nelle vedute,
cercare il più piccolo errore.
Un’occasione eccezionale
per ricordare per un attimo
di che si è parlato
a luce spenta;
e almeno per una volta inciampare in una pietra,
bagnarsi in qualche pioggia,
perdere le chiavi tra l’erba;
e seguire con gli occhi una scintilla di vento;
e persistere nel non sapere
qualcosa d’importante.
Forse tutto questo
Forse tutto questo avviene in un laboratorio? Sotto una sola lampada di giorno e miliardi di lampade la notte?
Forse siamo generazioni sperimentali? Travasati da un recipiente all’altro, scossi in alambicchi, osservati non soltanto da occhi, e infine presi uno a uno con le pinzette?
O forse è altrimenti: nessun intervento? I cambiamenti avvengono da sé in conformità al piano? L’ago del diagramma traccia a poco a poco gli zigzag previsti?
Forse finora non siamo di grande interesse? I monitor di controllo sono accesi di rado? Solo in caso di guerre, meglio se grandi, di voli al di sopra della nostra zolla di Terra, o di migrazioni rilevanti tra i punti A e B?
O forse è il contrario: là piacciono solo le piccole cose? Ecco una ragazzina su un grande schermo si cuce un bottone sulla manica.
I sensori fischiano, il personale accorre. Ah, guarda che creaturina con un cuoricino che le batte dentro! Quale incantevole serietà nell’infilare l’ago! Qualcuno grida rapito: Avvertite il Capo, che venga a vedere di persona!
Nulla è in regalo! Nulla è in regalo, tutto è in prestito. Sono indebitata fino al collo. Sarò costretta a pagare per me con me stessa, a rendere la vita in cambio della vita.
È così che è stabilito, il cuore va reso e il fegato va reso e ogni singolo dito.
È troppo tardi per impugnare il contratto. Quanto devo mi sarà tolto con la pelle.
Me ne vado per il mondo tra una folla di altri debitori. Su alcuni grava l’obbligo di pagare le ali. Altri dovranno, per amore o per forza, rendere conto delle foglie.
Nella colonna Dare ogni tessuto che è in noi. Non un ciglio, non un peduncolo da conservare per sempre.
L’inventario è preciso, e a quanto pare ci toccherà restare con niente.
Non riesco a ricordare dove, quando e perché ho permesso che aprissero questo conto a mio nome.
La protesta contro di esso la chiamiamo anima. E questa è l’unica voce che manca nell’inventario.
Gente sul ponte. Strano pianeta e strana la gente che lo abita. Sottostanno al tempo, ma non vogliono accettarlo. Hanno modi per esprimere la loro protesta. Fanno quadretti, ad esempio questo: A un primo sguardo nulla di particolare. Si vede uno specchio d’acqua. Si vede una delle sue sponde. Si vede una barchetta che s’affatica. Si vede un ponte sull’acqua e gente sul ponte. La gente affretta visibilmente il passo. perché da una nuvola scura la pioggia ha appena cominciato a scrosciare. Il fatto è che poi non accade nulla. La nuvola non muta colore né forma. La pioggia né aumenta né smette. La barchetta naviga immobile. La gente sul ponte corre proprio là dov’era un attimo prima. E’ difficile esimersi qui da un commento. Il quadretto non è affatto innocente. Qui il tempo è stato fermato. Non si è più tenuto conto delle sue leggi. Lo si è privato dell’influsso sul corso degli eventi. Lo si è ignorato e offeso. A causa d’un ribelle, un tale Hiroshige Utagawa (un essere che del resto da un pezzo, e come è giusto, è scomparso), il tempo è inciampato e caduto. Forse non è che una burla innocua, uno scherzo della portata di solo qualche galassia, tuttavia a ogni buon conto aggiungiamo quanto segue: Qui è bon ton apprezzare molto questo quadretto, ammirarlo e commuoversene da generazioni. Per alcuni non basta neanche questo. Sentono perfino il fruscio della pioggia, sentono il freddo delle gocce sul collo e sul dorso, guardano il ponte e la gente come se là vedessero se stessi, in quella stessa corsa che non finisce mai per una strada senza fine, sempre da percorrere, e credono nella loro arroganza che sia davvero così.
Chi ha detto che la vita è breve? Joyce Lussu
Non è vero niente La vita è lunga quanto le nostre azioni generose quanto i nostri pensieri intelligenti quanto i nostri sentimenti disinteressatamente umani. La vita è infinita. Chi ha detto che la gioventù non dura? Certo, ci sono anche i vecchi. Ci sono i nazionalventenni i mercenari e i razzisti ci sono gli opportunisti di tutte le età e i pensionati cronici che pensan solo alla carriera ci sono le rughe devastanti dell'avidità di soldi e di potere. Ma l'esperienza che non ha corroso lo slancio l'ironico disincanto che non fa amare meno gli uomini la saggezza che combatte in prima linea con gli occhi aperti sul futuro sono l'alloro e l'elce verdi estate e inverno.
Un giornalista mi ha chiesto
Joyce Lussu
Un giornalista mi ha chiesto
se mi considero una donna di successo
e ho risposto di sì.
"Non puoi rispondere così"
ha osservato un amico
che mi segue dappresso
cercando di impedirmi di far brutte figure.
"I tuoi libri hanno scarse tirature
raramente hai accesso
alle televisioni
il sociologo Alberoni
non ti ha mai citata..."
"Allora avevo capito male
dissi, credevo che il successo
nella vita, fosse svegliarsi la mattina
di buon umore, senza problemi di fegato
guardando alla nuovissima giornata
come a un'avventura piacevole..."
"Ma lo sai bene che anche le femministe
ti hanno sempre snobbata
che Panorama e L'Espresso
non ti chiedono articoli
di politologia..."
"Senti, sia come sia, ti confesso
che non m'interesso molto al successo
ma appassionatamente al succede
e al succederà.
Il successo è un paracarro
una pietra miliare
che segna il cammino già fatto.
Ma quanto più bello il cammino ancora da fare
la strada da percorrere, il ponte
da traversare
verso l'imprevedibile orizzonte
e la sorpresa del domani
che hai costruito anche tu..."
Adesso faccio tutte le domande che mi vengono, faccio l'ignorante totale (non mi ci vuole molto...), pur sapendo che non è così che si affronta la poesia... o dico quello che ho capito io? Mah, che razza di tormento... Allora: il demone è l'incessante chiedersi, la personificazione del perenne tormento dello scavo, della riflessione sul perchè più disperante e a cui mai ci rassegneremo. La fine, di cui siamo certi. E qui è il primo paradosso: la fine, il nulla funziona da solido pilastro, sicuro porto. Ed è struggente quando questo sicuro porto si cela al nostro sguardo, s'allontana, sparisce, ci lascia dentro ad una corrente quieta, ad ascoltare il tenero rumore della vita. Io vivere vorrei addormentato entro il dolce rumore della vita*: Sandro Penna arriva fin qui, tu vai ben oltre. E lì inizia il tormento, il difficile: c'è un punto in cui tutto comincia, dal quale non si può fuggire, lo vediamo, lo viviamo, il punto del segno del vuoto, come quegli indici di livello, sempre più alti e drammatici, che restano, indelebili, marchiati sui muri dei paesi golenali dopo le piene. Il nostro punto è tra il bordo e la schiuma, è la parte vuota del bicchiere pieno. Perchè una parte vuota, checchè se ne dica, esiste sempre, anche se ci affidiamo agli psicologismi superficiali e risibili che ci raccomandano di cacciare pessimismi e apocalissi “cercando di vedere il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto”... *C'è un bel film di Giuseppe Bertolucci che s'intitola così: IL DOLCE RUMORE DELLA VITA, del 1999.
Prima impressione: il livello linguistico, strutturale e analogico resta altissimo, limpido, ricco. Ma tu diventi sempre più complesso e difficile, sempre più... giocatore di prestigio: attenzione, signori, il gioco è sotto i vostri occhi, semplice, chiaro, lo capisce anche un bambino, non c'è trucco... uno ci casca, si avvicina, guarda, si lascia affascinare, gode lo spettacolo, vede le scene, annusa le atmosfere e poi... cristo santo, ma cosa c'è qui sotto? Altro che il grande metafisico da burla... Ho cominciato a scrivere qualcosa, andrò avanti a puntate, via via che riesco a capire...
Rileggendo, senza interruzioni, d'un fiato, è sempre la straordinaria felicità musicale che afferra la gola e l'orecchio, irresistibile... mi vien da dire: potrebbe contarti qualsiasi cosa e rimarresti comunque ammaliato... forse l'unica parola "pesante", meno aerea, per meglio dire, meno "ballabile", è "collassa"... e in chiusa, un quadro di Hopper...
No, no... non è così semplice... sì, va bene, le visite, il poeta sente voci e vede cose che noi non vediamo, certo, il suo inconscio ha capacità di espansione e di costruzione che altri non hanno... ma è altrettanto vero che dentro alla sua trance organizza anche concetti, e questi sono densi, nascono complessi, ogni parola una valigia, e di questo non so fino a che punto lui si renda conto... per esempio, questo viaggiatore (alla Bergman...intuitivamente), che non sappiamo se ci dia o no speranza, viaggiatore che rinuncia a mettersi per strada, è pur sempre portatore di uno sguardo lucidissimo sull'oggi, sulle nostre debolezze (siamo diventati un popolo dipendente dal più stupido gioco d'azzardo), sulle nostre difficoltà d'integrazione con solitudini umane che parlano altre lingue, hanno abitudini quasi autistiche, si chiudono in salvezze alcoliche, in tutto vicine e lontane ad un tempo a quelle dei nostri infelici, isolati paesi di provincia...e arriviamo a L'uomo che non parla con gli altri...Per favore, non dirmi che tutto è semplice...la tua poesia non consente MAI di essere liquidata o giustificata con poco..."e mia è la voce che implora e condanna nell'aula chiusa del mio tribunale"... "un passo prima dell'abiura"...: pensi davvero che tutto questo non imponga di allargare il ragionamento, di storicizzare? Che cosa implora e che cosa condanna, quella voce, in quel TRIBUNALE INTERIORE, che, se permetti, è già, se non altro come immagine, estremamente forte e inquietante (sì, Dostoevskij, va bene, ma non è più lui...), e che cosa abiura, e perchè? Abiurare è un termine che si usa a fronte di un enorme, nobilissimo senso di responsabilità... Sai cosa ti dico? Sto giusto leggendo Vita di Pasolini di Siciliano: aveva ragione, Pasolini, a credere ferocemente alla capacità della poesia di incidere sulla realtà, di esserne l'unica voce. Forse, ai suoi tempi, era più facile farne passare le comunicazioni, e oggi è ben diverso (qui da noi, in paesi più civili è ancora come allora...), ma che solo QUEL MODO di indagare, riflettere, ricostruire sia definitivo, è verissimo... e, però, è tutto tranne che semplice... Vado facendo io, da sola, quel brain storming che vorrei collettivo: continuo ad adunare qui tutto quello che mi viene in mente. Adesso c'è una citazione di Pasolini che, in chiusa, ti somiglia...E' del 1959... … io mi ricuso ormai a vivere. Non c'è più niente oltre la natura – in cui del resto è effuso
solo il fascino della morte – niente di questo mondo umano che io ami. Tutto mi dà dolore: questa gente
che segue supina ogni richiamo da cui i suoi padroni la vogliono chiamata, adottando, sbadata, le più infami
abitudini di vittima predestinata; il grigio dei suoi vestiti per le grige strade; i suoi grigi gesti in cui sembra stampata
l'omertà del male che l'invade; il suo brulicare intorno a un benessere illusorio, come un gregge intorno a poche biade;
la sua regolarità di marea, per cui resse e deserti si alternano per le vie, ordinati da flussi e da riflussi ossessi
e anonimi di necessità stantie; i suoi sciami ai tetri bar, ai tetri cinema, il cuore tetramente arreso al quia...
“La voce che implora e condanna nell'aula chiusa del mio tribunale”: è impossibile non ripensare a quella lucida e disperante consapevolezza critica e profetica, coltivata in solitudine e tra gli attacchi e le incomprensioni di schiere di nemici e amici, che è stata il tratto più evidente di Pasolini e della sua storia... aveva ragione, e in questo ha vinto, anche e soprattutto nel fare di questo habitus – il più faticoso, costoso, straziante, consolato soltanto dalla fecondità del lavoro intellettuale, dalla poesia, che fosse in versi o in immagini di film - la forma più alta di tensione etica, di assunzione di responsabilità, fino all'estrema, masochistica consunzione...
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