A bordo della nave del Faraone c’erano alcuni illustri ospiti. Uno, soprattutto: Menelao, principe di Micene e Re di Sparta. Con lui c’erano la regina Elena e i pochi compagni sopravvissuti ad un lungo peregrinare per i mari durato cinque anni.
Il faraone Meremptha aveva voluto onorarlo non solo perché era il sovrano più importante dei “Popoli di Mare”, maanche perché nel corso di una partita di caccia al toro, Menelao aveva salvato la vita della sua ultimogenita, la principessa Nefer. (vedere libro: IlGuardiano della Soglia – Capitolo X )
Al limitare di una folta giuncaia un gruppo di cicogne si levò in volo oscurando il sole, prima di disporsi in una lunga fila; seduta su uno scanno di canne, Nefer le seguì con lo sguardo fino a quando, accecata da Horo, non li vide scomparire oltre il canneto da cui proveniva uno schiamazzare di anitre.
Ad una delle ragazze che stavano esibendosi nella “Danza degli Specchi”, sul piazzale antistante la cabina ove erano il Faraone e i suoi ospiti, la principessa chiese lo specchietto che quella reggeva in mano.
La “Danza degli Specchi” era una delle più aggraziate rappresentazioni musicali ed era eseguita da ragazze molto giovani ed elegantemente abbigliate.
Nefer sorrise al proprio volto riflesso nello specchio; sorrise agli occhi sfavillanti che la guardavano ed in cui erano racchiusi sogni e fantasie. La mano le tremava, però, e il manico dello specchietto tremava con essa: lo sguardo, dal fondo di quella superficie d’argento tirata a lucido, aveva catturato il suo e lo tratteneva.
La principessa capì di avere di fronte l’altra “se stessa” e la chiamò:
“Nefer?… Ti chiami Nefer anche tu?… No!… Tu non ti chiami Nefer. Il tuo nome…. oh, adesso ricordo… il tuo nome è Isa…Isabella. Sì! Il tuo nome, nei miei sogni, è Isabella… Tu sei il Ka di Nefer.. Sei il suo Spirito e il tuo nome è Isabella… - un attimo di attonito, meraviglioso stupore, poi riprese - Parla con Nefer, Isabella… Parla… parla, ti prego…”
Dall’ “altra parte”, Iabella sorrideva!
La principessa Nefer era conscia che la sua voce non poteva raggiungerla. La “sentiva” dentro di sé, nello sguardo, nel cervello, nel sangue, ma intuiva l’enorme distanza che le separava l’una dall’altra.
“Isabella…” chiamò ancora, consapevole che quello non era soltanto un sogno, frutto della sua fantasia, ma una concessione degli Dei, una virtù divina che le permetteva di vedere l’immagine del suo Ka, prima della partenza per la Duat, l’Oltretomba.
“Isabella…” la chiamò per la terza volta.
Non ottenne risposta e pianpiano, al lento movimento della grande barca, le palpebre le si appesantirono. Chiuse gli occhi e si lasciò scivolare in un dolce dormiveglia fino a quando una voce non la chiamò:
“Nefer… Nefer, figlia mia”
Aprì gli occhi: un volto dolcissimo ed amato aveva preso forma in mezzo alle nebbie del sonno.
“Madre… madre mia…” bisbigliò.
“Attenta, figlia! Attenta, Vita della mia Vita! La lunga mano del figlio di Teshnut si tende… si tende per allontanarti dalla tua ombra…”
Uno scarto della grossa barca la scosse e la svegliò.
“Madre… - continuò ad invocare, spalancando gli occhi – Madre, dove sei?”
Accecata dal sole che riverberava sull’acqua, li richiuse; si passò una mano tra i capelli in cui le si era insinuato un soffio di vento.
“Nefer.”
Ancora si sentì chiamare, ma la voce non arrivava da lontano. Riaprì gli occhi e riemerse da quel mondo dei sogni popolato di misteri.
Una figura era frapposta fra leie il sole, pochi passi più avanti. La riconobbe.
“Thotmosis.” esclamò lasciando lo scanno; si riassettò le vesti e raggiunse il fratello.
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