Ecco, dietro quella curva, tra il biancospino e i rovi di more, si vede l’abside di mattoni della piccola chiesa. Il giallo delle stoppie è accecante e tutta la valle è punteggiata da stormi di rotoballe, che da lontano interrompono, con un accento più scuro, un uniforme ed ispido tappeto dorato.
In nessun luogo come in cima a questa collina di creta io riesco a comprendere il senso dell’abbandono e di tutte le sue magiche deviazioni, la bellezza innanzitutto, la nostalgia, la malinconia.
La prima volta sono arrivato qui in bicicletta, da solo, due anni fa. Stessa stagione, stessi colori di oggi. L’odore forte di grano tagliato, il sole ancora alto, un mare di riflessi su tutte le sfumature del giallo. Abbandonata la statale, la strada segue l’andamento dei campi e delle colline, spaccate, quasi ferite dal sole e dal vento, che con la complicità della composizione della terra e della poca acqua formano quelle strane eruzioni di argilla che macchiano qua e là tutta la valle.
Poi il silenzio e la luce.
Riesco a sentire esattamente la mia presenza, il rumore dei passi, il mio respiro, il frusciare dei vestiti, l’intensità del vento, lo stupore delle lucertole, il grido secco e sgraziato delle ghiandaie, la fuga collettiva dei fagiani verso le macchie e il fremito maestoso del volo di un airone.
Natura. Senza felicità o dolore.
La luce di luglio nel pomeriggio inoltrato, il caldo come uno scialle di seta sul viso e su tutto il corpo, un sudore quasi sensuale. Lo sguardo copre distanze enormi, dal monte Amiata a Siena, di fronte la perfezione prospettica di Pienza, a destra la ruvida torre di Monticchiello, dietro tutta la val d’Orcia fino alle Rocche ed alle gole della Ripa, a sinistra oltre la Francigena, l’inespugnabile Montalcino.
Terra e sguardi di contrasti, di colore, di profumi e di sentimenti diversi, tutti stretti intorno ad un ricordo di vita dura ed arsa dal sole, con mani e braccia tramate dal pulsare delle vene, gli occhi e la voce fieri, anche nell’accettazione del destino che da sempre accompagna il lavoro contadino.
La dolcezza è nei colori e nelle forme, ma sempre con quel sentimento asciutto ed essenziale proprio di una terra con pochi boschi e poca acqua, così poco incline al calore rassicurante della natura romantica, molto più vicina invece alla santità ed alla sua mistica sofferenza. Per questo il suo oro è quello che circonda i volti delle madonne di Lorenzetti e la sua pietra è quella senza tentennamenti di Caterina da Siena.
Tutto qui è stupore degli occhi, come questa piccola cappella solitaria in cima alla collina. A chi arriva dal sentiero, con i suoi mattoni rossi e la sua abside minuta, nasconde una facciata preziosa in marmo, che in primavera si staglia come un diamante sul riflesso verde dei campi che ondeggiano tutt’intorno sferzati dallo zefiro dolcissimo.
Davanti un piccolo pozzo ed una casa colonica, in parte disabitata e poi un susseguirsi di campi, piccole macchie, querce secolari in mezzo alle stoppie, che con la loro ombra gigantesca sono l’unico segno di clemenza in mezzo alla nudità delle radure, piccoli rivoli d’acqua subito presi d’assalto da una vegetazione spinosa ed inaccessibile, case e ruderi, e bianchi sentieri che disegnano con le loro curve geometrie l’affanno del lavoro dell’uomo.
Non sono venuto qui per decidere niente, e mi rendo conto benissimo della distanza inseparabile tra me ed il paesaggio.
Però qui è più facile osservare da lontano, guardare i legami, gli affetti, la nostra infinita capacità di immaginare e sognare, come una perdita costante, una polverosa illusione, un profumo malinconico di ginestra appassita.
Dalla finestra della colonica si affaccia una ragazza, i capelli sono bagnati, lunghi e neri, un asciugamano le cinge il corpo lasciando scoperte le spalle, ci guardiamo un attimo in silenzio, poi dico buonasera, lei risponde buonasera e rientra chiudendo la finestra.
Da lontano una mietitrebbia fa eco al rumore delle ruote della bicicletta sui sassi, bevo un po’ d’acqua ed un altro po’ ne verso sul collo e sul viso, mi siedo di fronte alla cappella e aspetto il prossimo pensiero.
Io non sono abituato a pensare spesso al futuro, o forse preferisco non farlo. Credo sia l’età.
Ora per esempio, vedendo quella ragazza ho immaginato di bussare e chiederle dell’acqua. O chiederle di lavarmi, nella sua casa. Ma l’idea più forte è quella di baciarla e toglierle l’asciugamano e baciarla ancora, dappertutto. Ma questo pensiero è legittimo o no? O meglio, è un desiderio o un istinto? E cosa mi trattiene, la certezza di un rifiuto, il senso di colpa o una generica morale comune?
C’è un cipresso, da solo, sulla sommità di una collina, un po’ più avanti, sulla sinistra.
Mio padre è morto, da solo, forse è morto soffocato dal catarro che la tracheotomia non era riuscita comunque a dissipare. Da solo. Senza che ci fossi io a vegliare su di lui, ho preferito tornare a casa, era solo una notte, in fondo, che cosa mi sarebbe costato rimanere in ospedale per quella notte, una vita intera in cambio di una sera uguale a tutte le altre, cena, televisione ed un bacio prima di dormire.
Dormire mentre un padre muore.
Non è uno scambio dignitoso ed io sono un padre. E’ quello che ogni padre deve aspettarsi? Quale ala rapace solca in certi istanti il nostro piccolo cielo? Cos’è che ci assolve e non ci fa cadere definitivamente sotto una coltre di nuvole incerte?
Forse l’amore per la vita, per un luogo come questo, o per un solo giorno d’estate disteso tra l’oro delle messi mature e la limpidezza di ogni singolo pensiero. Certo che la sproporzione è evidente, ma qui anche la nostalgia splende come un metallo al sole, qui la malinconia è tutta per non aver colto l’istante esatto in cui una piccola volpe ha attraversato la radura prima di rientrare nella macchia.
Una piccola goccia di sudore cade su un filo d’erba lavando via la polvere gialla accumulata da settimane di siccità.
Sembra una lacrima, forse la mia, o forse è acqua scivolata dai capelli bagnati della ragazza di prima, che magari ha pensato quello che pensavo io, e non c’è bisogno di bussare alla sua porta, era lei che mi aspettava, è lei che benedice una giornata diversa e senza parole, mentre si toglie l’asciugamano, stringe il mio viso tra i suoi seni, ed io sento la sua pelle fresca che m’invita a bere fin dentro il suo sorriso.
“Solo il cardo è in fiore:
le femmine hanno avido il sesso,
i maschi poco vigore, ora che Sirio
il capo dissecca e le ginocchia”
La goccia si è appena asciugata e subito ne cade un’altra, ma il filo d’erba è già pulito e l’effetto è diverso.
C’è qualcosa di sublime nella velocità della nostra mente. Ma il cuore non riesce a stargli dietro, col suo ritmo regolare, con la sua incessante e ripetitiva rincorsa, è un passo dietro l’ombra dei pensieri, piange e soffre per qualcosa che è già passato o mai successo, anche se il suo respiro è come una falce sul grano, ci conduce alla messe dei sentimenti e ci lascia spesso solo il ricordo del loro colore.
Forse quello che mi rende felice in questo luogo è che riesco a vedere le cose senza precipitare immediatamente nel vortice dei perché, forse il giallo di questo grano mi assolve dalla necessità dell’appartenenza.
Ecco cosa intendo per abbandono: il punto di vista di chi esce dal fumo della stanza e guarda la stessa scena pensando ad un infinito di altrove, di chi ripete la stessa identica vita pensandola eternamente confusa e sovrapposta ad altri giorni, altre persone, altri se stesso.
Non è un esercizio filosofico, è una strana e, per certi versi, crudele attitudine a frequentare i propri pensieri senza giudicarli.
Il madreperla di una nuvola si ferma per qualche minuto a contrastare il giallo sempre più invecchiato del sole, togliendo spessore e dimensione alle cose, restituendo agli occhi un paesaggio meno contrastato. Il mio respiro è calmo e mi conforta essere accerchiato dalle stoppie.
Il destino, la tenacia e la durezza del lavoro contadino sono in fondo simili alla disciplina dell’amore, ogni giorno, ogni ora di lenta costruzione, è una devozione verso la tenerezza delle stagioni, che sanno dare frutti, che sanno dove abita la commozione. Tutto è nello sguardo, lanciato a scrutare la perfezione di un confine o i primi germogli su un ramo, tutto è nelle mani che devono amare e chiudere i pugni.
C’è qualcosa in me che, in luoghi e momenti come questo, è una distanza infinita dalla smania e dal freddo sudore dei giorni, qualcosa che non so dire ma che amo più di ogni altra cosa, qualcosa che non è né rassicurante né decente: una sorta di momentanea sospensione, di sottrazione di tempo e di senso, qualcosa che non contrasta i desideri, ma li dipinge su una tela in modo che io possa guardarli, con tutta la nostalgia o l’entusiasmo possibili, senza che questo mi costringa ad un’azione, ad un gesto, a nessuna decisione.
La malinconia di chi sa che quel mare di pensieri non potrà cambiare la tua vita, ma che, nonostante ciò, ti fa sembrare tutto diverso, tutto reale anche se impossibile.
E’ la pace dei sentimenti arresi, dei sogni sognati e così tanto amati, quando anche il dolore è solo una macchia leggermente più scura nel cielo della stanza, un solco scavato dal vento che scompiglia l’ordinata distesa del grano, un soffice peso tutto sommato sopportabile.
Così mio padre forse sarebbe morto in ogni caso, nessuna ragazza che per caso si affaccia da una finestra fa cadere ai suoi piedi l’asciugamano ed io rimango l’uomo che sono, fermo sulla soglia di decine e decine di pensieri che l’anima fa fatica a contenere. Lo dico e lo penso senza amarezza, ma con il rimpianto che tutti ci accomuna, quello di dover scegliere, sempre, tra dire e non dire, tra poesia e vita, tra amare e crescere, tra la passione ed il tempo.
Raccolgo una spiga sopravvissuta al taglio aritmetico della mietitrebbia. Il suo giallo, ormai carico di sole e di vento, sarà il colore del ricordo per la prossima volta che verrò, magari quando la brina e la nebbia adornano il grigio riposo di questi campi.
E mentre lascio andare la bicicletta sulle curve di ghiaia, capisco meglio il significato di ogni lontananza.
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