Pubblicato il 16/06/2008
La strada della metropoli mi corre incontro, mentre anche noi corriamo. Piove, ma neanche ce ne accorgiamo. Corriamo in mezzo ad altra gente, urtandola, schivandola, senza neanche guardarla. Abbiamo ingaggiato una folle gara con il tempo: abbiamo fretta di arrivare. Sto sfidando le ore che rincorro sull’angusta pista circolare di un virtuale quadrante. Non frenerò fino al giorno in cui finalmente avrò raggiunto e superata la prima lancetta. Temeraria, mi fermerò per guardare, trionfante, l’avversaria ormai vinta. Non voglio pensare a quello che succederà nel momento in cui potrò contemplare la mia vittoria: forse, rimarrò stritolata proprio sul mezzodì ed anche le mie urla verranno coperte dal roboante susseguirsi dei dodici rintocchi. L’acqua oramai mi ha infradiciata, ha riempito gli occhi, la bocca e i vestiti si sono fatti pesanti. Cado rovinosamente a terra. Gli altri mi colpiscono, mi calpestano, scavalcano questo fagotto bagnato. Il dolore è acuto, mi prende la bocca dello stomaco ed io dimentico la mia corsa, la gara, la sfida. Non riesco a vedere bene, tutto è sfocato, nascosto dietro la ragnatela tessuta dalle fitte gocce di pioggia. Con le mani tasto il l’asfalto: i miei occhiali sono in pezzi. Cerco di mettere a fuoco la figura dell’uomo che mi è accanto, di riconoscere, nei suoi, i tratti del viso del mio compagno. Ma non gli assomiglia, non è lui. Non si è fermato: più veloce e determinato di me è andato avanti. Chi si ferma è perduto, anzi ha perduto. Eppure, accanto a me c’è qualcuno: silenzioso, mi solleva e mi porta al coperto, all’interno di un portone che magicamente ha aperto i suoi battenti, risucchiandomi, portandomi via dalla strada. Ho freddo e paura: mi sento osservata. Barba folta e bianca, volto cotto e rugoso, mani nodose e costellate di macchie, chino su di me, mi guarda. Vergognandomi, mi alzo cercando di rassettare con veloci nevrotici colpetti delle mani gli abiti stazzonati che sgocciolano, bagnando il pavimento. Sono imbarazzata, confusa, mi chiedo, diffidente, perché l’uomo mi abbia aiutata, cosa voglia veramente. Nel frattempo mi guardo intorno: sono in una stanza dalle pareti completamente bianche, coperte da ogni tipo di orologio a muro. Ma sono tutti fermi: non un ticchettio, non un movimento. Adesso ho veramente paura: sono finita a casa di un pazzo, magari pericoloso. Lui mi sta guardando con un sorriso strano, un misto di sarcasmo e tenerezza. Ha capito quello che sto pensando, lo so, lo sento. E fra noi inizia la più strana conversazione che abbia mai fatto in vita mia: ci parliamo attraverso la mente. Le parole arrivano nitide, forti, compiute ma non ci sono movimenti delle labbra o gesti, solo un intenso unico sguardo. È un film, un sogno, un’allucinazione: forse un trauma dovuto alla caduta. Probabilmente sono in coma: ho letto sui giornali che si vedono cose strane, luci, persone morte. Invece no: è tutto vero. Sono io, viva e vegeta e sto comunicando col pensiero con uno sconosciuto. Mi invita a muovermi liberamente nella stanza ed io mi avvicino ad una delle pareti. Guardo uno degli orologi: al di là del vetro di protezione lancette ferme, una piccola farfalla immobile con le ali dai colori sbiaditi e ed un vetrino, di quelli per le osservazioni al microscopio. Accanto un altro, anch’esso immobile, contiene una farfalla ed un pentagramma zeppo di note. Poi, ancora uno: accanto alla farfalla questa volta c’è la foto di un volto femminile perfetto, ma senza età. Una pena terribile mi assale: che fine hanno fatto le vite delle persone a cui appartenevano questi oggetti? Perché sono rimasti chiusi in un orologio. Poi, con orrore, mi rendo conto di quanti siano i macabri trofei appesi alle pareti. Ora sento di nuovo la voce del vecchio. ”Vedi, figlia, sei nella casa del tempo. Non temere: questo è ciò che resta a chi ha sfidato l’infinito, ha sbriciolato l’eternità in secondi e con poca saggezza, ha creduto di poterla calcolare, contare, controllare. Ma il tempo è stato, è e sarà e, nello stesso tempo, non è mai esistito. Hai avuto la fortuna di cadere e fermarti: ora puoi smettere di combattere il tempo. Ogni uomo può fermarsi: non aver paura dei minuti. Fermati a contemplare, a godere, ad ascoltare. Cogli i frutti che trovi sul tuo cammino: impara a soffrire e a sperare. Fermati sempre quando è tempo di amare”.
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