Pubblicato il 24/03/2008
LE TENTAZIONI ovvero Eros, Pluto e la Gloria da “Lo Spleen di Parigi”
Due superbi Satanassi e una Diavolessa, non meno straordinaria, la notte scorsa sono saliti per la scala misteriosa che dall'Inferno conduce all'assalto della debolezza dell'uomo che dorme, e comunica in segreto con lui. E sono venuti a posarsi gloriosamente davanti a me, dritti come su un palco. Uno splendore sulfureo emanava dai tre personaggi, stagliati così sul fondo opaco della notte: Avevano l'aria tanto fiera e dominatrice, che sulle prime li presi tutti e tre per veri Dei. Il volto del primo Satanasso era di sesso ambiguo e c'era, anche nelle linee del suo corpo, la mollezza degli antichi Bacchi. I suoi begli occhi languidi, di un colore tenebroso e incerto somigliavano a violette ancora cariche del greve pianto del temporale, e le sue labbra socchiuse somigliavano a caldi bruciaprofumi, da cui esalasse un buon odore di profumeria; e ogni volta che sospirava, muschiati insetti in volo si illuminavano all'ardore del suo respiro. Intorno alla sua tunica purpurea era arrotolato, come cintura, un serpente cangiante che, con la testa eretta, volgeva languidamente verso di lui gli occhi di brace. A questa cintura vivente erano sospesi, alternati a fiale piene di sinistri liquori, lucidi coltelli e strumenti chirurgici. Nella mano destra teneva un'altra fiala di contenuto rosso fiammante, e sull’etichetta erano queste strane parole: «Bevete, questo è il mio sangue, un cordiale perfetto »; nella sinistra un violino che forse gli serviva per cantare piaceri e dolori, e per diffondere il contagio della sua follia nelle notti del sabba. Alle caviglie delicate pendevano alcuni anelli di una catena d'oro spezzata, e quando l'impaccio che gli davano lo costringeva a chinare gli occhi verso terra, si contemplava vanitosamente le unghie dei piedi, brillanti e levigate come pietre ben lavorate. Mi guardò con occhi inconsolabilmente desolati, da cui fluiva un'insidiosa ebbrezza, e mi disse con voce melodiosa: «Se lo vuoi, se lo vuoi, ti farò signore delle anime, e sarai padrone della materia vivente, più di quanto lo scultore lo sia dell’ argilla; e conoscerai il piacere perpetuamente rinnovato, di uscire da te stesso per dimenticarti negli altri, e di attirare le altre anime fino a confonderle con la tua ». E io gli risposi: «Tante grazie! Non so che farmene di quella paccottiglia di esseri che non vale certo più del mio povero io. Benché abbia qualche vergogna a ricordarmene, non voglio dimenticare nulla; e anche se non ti conoscessi vecchio mostro, la tua misteriosa armeria, le ,tue equivoche fiale, le catene che impigliano i tuoi piedi, sono simboli chiaramente esplicativi degli inconvenienti della tua amicizia. Tienti i tuoi doni ». Il secondo Satanasso non aveva né quell'aria a un tempo tragica e sorridente, né quelle belle maniere insinuanti, né quella bellezza delicata e profumata. Era un uomo imponente, con un largo viso senza occhi, una pancia pesante e dilagante sulle cosce, e la pelle tutta dorata e illustrata, come per un tatuaggio, da una folla di figurine mobili rappresentanti le tante forme della miseria universale. C'erano degli omini sfiancati che si appendevano volontariamente a un chiodo; c'erano piccoli gnomi deformi magri, che chiedevano l'elemosina più con i loro occhi supplichevoli che con le tremanti mani; e poi vecchie madri con aborti di figli aggrappati alle mammelle estenuate. E molte altre figure ancora. Il grosso Satanasso si batteva il pugno sul ventre immenso, da cui usciva allora un lungo e risonante tintinnio di metallo, che terminava in un vago gemito fatto di mille voci umane. E rideva, mostrando impudentemente i denti guasti, di un riso enorme, imbecille, come ridono certi uomini di qualsiasi paese di questo mondo, quando hanno pranzato troppo bene. E costui mi disse: «lo ti posso dare ciò che tutto ottiene, tutto vale, tutto sostituisce! ». E batté sul suo ventre mostruoso, e la sua eco sonora fece da accompagnamento alle sue grossolane parole. Mi voltai con disgusto, e risposi: «Io non ho bisogno, per godere, della miseria altrui e non voglio saperne di una ricchezza rattristata, come una carta da parati, da tutte le infelicità raffigurate sulla tua pelle ». Quanto alla Diavolessa, mentirei se non confessassi che a prima vista le trovai uno strano fascino. Per definire questo fascino, non saprei paragonarlo meglio che a quello in declino delle donne molto belle, che peraltro non invecchiano più, e la cui bellezza conserva la magia penetrante delle rovine. Costei aveva l'aria a un tempo imperiosa e disarticolata, e i suoi ochi, sebbene cerchiati, racchiudevano una forza fascinatrice. Ciò che più mi colpì fu il mistero della sua voce, nella quale ritrovai il ricordo dei più deliziosi contralti e anche un po' la rochezza delle gole continuamente lavate dall’acquavite. « Vuoi conoscere il mio potere? » disse la falsa dea con la sua voce affascinante e paradossale. «Ascolta». E si portò alle labbra una tromba gigantesca, infiocchettata, come uno zufolo, con i titoli di tutti i giornali dell'universo, e attraverso quella tromba gridò il mio nome, che rintronò così attraverso lo spazio col rumore di centomila tuoni, e mi tornò ripercosso dall'eco del più lontano pianeta. « Diavolo! » feci io., semisoggiagato, « è propria di valore! ». Ma esaminando. più attentamente la seducente virago, mi sembrò vagamente di riconoscerla per averla vista brindare con alcuni gaglioffi di mia conoscenza; e il suono rauco dell'ottone portò alle mie orecchie non so quale ricordo di una tromba prostituita. Allora, con tutta il mio sdegno, risposi: « Vattene! Io non sano fatta per sposare l'amante di qualcuno. che non voglio neppure nominare ». Certo, di tanta coraggiosa abnegazione avevo diritto di essere fiero. Ma sfortunatamente mi svegliai, e tutte le forze mi abbandonarono. « Davvero., mi dissi, dovevo dormire ben sodo per mostrare simili scrupoli. Ah! Se tornassero mentre sono sveglio, non farei tanto il delicato! ». E li invocai ad alta voce, supplicandoli di perdonarmi, offrendo loro di disonorarmi tutte le volte che fosse necessario per meritare i loro favori; ma, prababilmente, li avevo gravemente offesi, infatti non sono mai più ritornati.
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