VENGA IL TUO REGNO
Quando i discepoli domandarono a Gesù in che modo avrebbero dovuto pregare, fra le prime frasi che insegnò loro Egli inserì un’invocazione precisa: “Venga il tuo regno” (Matt. 6, 10). Agli occhi del Signore era questa una richiesta tanto importante che la antepose addirittura all’esigenza di impetrare dal Padre il pane necessario di ogni giorno, nutrimento di genere primario sia in campo materiale che spirituale.
Le espressioni “regno dei cieli” o “regno di Dio” ricorrono nei Vangeli in casi numerosissimi: è forse l’argomento sul quale il Salvatore ha narrato la maggior quantità di parabole, pronunciato ogni genere di esempi e fornito un tale numero di chiarimenti all’interno di molti suoi discorsi, da far pensare che fosse vitale ai suoi occhi che gli ascoltatori comprendessero a cosa stava facendo riferimento, almeno per quanto ciò fosse loro possibile.
Gesù disse: “Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo” (Matteo 13, 24); “Il regno dei cieli è anche simile a un mercante che va in cerca di perle preziose” (Matt. 13,45 ) per citare alcune delle svariate similitudini che usò. E ancora, tra le sue esortazioni: “Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli” (Matt. 5, 3); “Chi pertanto si farà piccolo come questo bambino, sarà lui il più grande nel regno dei cieli.” (Matt. 18,4).
Se da un lato è impossibile alla mente umana abbracciare appieno un pensiero di una simile portata, si intuisce comunque nello sforzo esplicativo da parte di nostro Signore nelle frasi citate e in mole altre presenti nel Vangelo la volontà di darne un’idea ai suoi piccoli, e scongiurare innanzi tutto un pericolo: di sgomberare cioè il campo in via preliminare dall’equivoco più fuorviante, la confusione cioè tra la propria regalità di Messia rispetto alle caratteristiche di ogni altro regnante terreno.
Un conquistatore umano, infatti, quando occupa una nazione, impone subito dall’alto le proprie leggi su tutta la popolazione assoggettandola con la forza delle armi. Egli ne diventa re con un’azione di guerra, così che grazie a quell’unico atto la nazione intera diviene oggetto del suo dominio.
Infinitamente più difficile, invece, è la battaglia che intraprende il Re dei Cieli. Egli si propone di conquistare niente meno che il cuore dell’uomo, luogo impervio per qualsiasi esercito e di tale grande desolazione che solo un incosciente, un folle, potrebbe concepire di lanciarsi in un’impresa tanto disperata. Un’impresa mortale. E proprio il cuore dell’uomo, questo edificio traballante ed eternamente in bilico, Egli desidera trasformare nella roccaforte della sua stabile presenza.
I Cristiani di culto bizantino pronunciano, all’inizio di ogni celebrazione, la preghiera: Benedetto il regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Secondo la liturgia delle Chiesa orientale, cioè, il regno di Dio Uno e Trino è già presente e realizzato. Questa verità d’altro canto è innegabile per qualsiasi credente in Gesù Cristo. Dio regna: Egli è ormai Signore del Cielo e della terra per la vittoria sulla morte, per la sua resurrezione. Eppure nemmeno una convinzione di fede come questa riesce ad abbracciare appieno il pensiero che sottintende. Se infatti si trattasse di una realtà compiuta, ormai stabilita e immutabile, nessuna necessità dovrebbe spingere i fedeli a ripetere giornalmente la preghiera insegnata dal Salvatore, quella che invoca proprio il verificarsi di questa condizione: “Venga il tuo regno”.
Cos’è dunque questo regno, in quale modo esso viene? Gesù disse: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!». (Luca 7, 21).
Direi di analizzare con attenzione questa frase, per le implicazioni che racchiude. Innanzi tutto essa rivela che la presenza regale del Messia non era certo di minore forza prima ancora del suo trionfo sulla morte, quando cioè Egli era ancora tra i suoi. Il regno è già in mezzo a voi, afferma Cristo, il regno è Lui stesso, Dio fatto uomo e vivente sulla terra.
E allora perché la necessità di pregare che questo regno venga? Esiste qualche altra condizione ancora necessaria?
Il Signore dice che il regno viene senza attirare l’attenzione. Pensiamo un attimo a questo, specie comparandolo a quanto accade ai nostri giorni in un mondo in cui tutto è frastuono, ogni cosa è fatta a caratteri lampeggianti di luce al neon proprio per essere vista e notata. Il conquistatore divino invece non solo ricusa l’uso della forza per stabilire il suo potere, ma tanto rispetta la libertà dei suoi sudditi da abolire qualsiasi forma di coercizione, anche solo psicologica, come potrebbero accadere con azioni che polarizzino l’attenzione umana verso di lui. Sappiamo che durante la sua vita pubblica il Cristo compiva miracoli, soprattutto per la compassione verso la gente che incontrava e vedeva soffrire, e poi ordinava severamente che non se ne parlasse.
La seduzione di voler cercare la gloria degli uomini provò a insinuare il suo sussurro maligno persino in Lui, come avvenne nel deserto quando Satana gli suggerì di imporsi allo sguardo di tutti gettandosi incolume dal più alto pinnacolo del Tempio. Ma il Figlio di Dio smascherò subito come una tentazione ogni iniziativa che potesse manifestarlo attraverso azioni di vasta risonanza. A Lui bastava quel breve pensiero di un pescatore che, intento a rammendare le sue reti, interrompesse un attimo il lavoro per alzare gli occhi e domandarsi se esiste Dio. A Lui bastava incontrare lo sguardo di chiunque fosse impegnato in attività anche di pregio assai minore, come l’esattore delle tasse che divenne suo evangelista, Matteo; per non parlare dell’ultima delle prostitute, Maddalena, che fu la prima a seguirlo fin sotto la croce. Nessuno di costoro ebbe bisogno di altisonanti dissertazione perché il regno di Dio si manifestasse nella sua realtà. Fu sufficiente l’invito più semplice, una singola parola: seguimi. Perché Cristo era già tra loro, era il presente che percorreva le strade dei loro villaggi, e non occorreva uno sforzo maggiore che allungare una mano per toccarlo. Gesù li guardò uno a uno, nella dimensione individuale e non come elementi di una massa senza forma.
Il regno di Dio è un dominio personale, rapportato al numero di coloro che ascoltano l’esortazione del Signore convertitevi e ricambiano il suo sguardo. E’ una vittoria dell’amore: ogni persona in più che l’accoglie è un frammento di questo regno che si espande. Di qui la necessità di pregare affinché ciò accada sempre, ogni giorno, per in ogni singolo uomo.
Volendo ridurre il discorso all’estrema semplificazione, volendo paragonare cioè questa diffusione del regno divino a una strategia di conquista, se ne possono considerare gli aspetti positivi e i problemi connessi. Se da un lato ha l’indubbio, fondamentale vantaggio di rispettare in maniera perfetta la libertà dell’uomo, lasciando alla volontà di ognuno la scelta di accettare o meno l’invito a essere accolti nel luogo di presenza dell’Altissimo, dall’altro la conseguenza che ne deriva è l’incertezza di un processo necessariamente incostante. Lo sforzo di conquistare uno per uno ogni essere umano presuppone un progresso lento, impercettibile nel suo avanzare, quieto. Lo stratega celeste ha dovuto mettere in conto uno sviluppo inevitabilmente graduale di un simile piano di salvezza, con tutte le dilazionati, le sconfitte e i possibili intralci. Un processo compiuto in quanto tempo? Anni, secoli, millenni? Nessuno può conoscerne il termine: quello che è certo è che si tratta di un evento progressivo, difficilmente distinguibile in itinere come accade per ogni altra cosa, e tuttavia operante anche ai nostri tempi, anche adesso. Gesù non promise mai di pronunciare una formula magica con la quale, in un attimo e come per incanto, avrebbe convertito tutta la terra, trasformandola nel suo regno personale. Egli però disse: “frattanto questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine.” (Matteo 24, 14).
Una delle visioni più suggestive su questa fine è sicuramente tramandata nei Libri del Vecchio Testamento dalle parole del grande profeta Isaia:
“Alla fine dei giorni,il monte del tempio del Signore
sarà eretto sulla cima dei monti
e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti.
Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe,perché ci indichi le sue vie
e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti
e sarà arbitro fra molti popoli.
Forgeranno le loro spade in vomeri,
le loro lance in falci;
un popolo non alzerà più la spada
contro un altro popolo,
non si eserciteranno più nell'arte della guerra.”
(Is. 2, 2 – 5)
Molti Ebrei attendono tuttora la venuta del Messia, sia inteso come singola persona sia come un intero popolo, perché affermano che niente è cambiato al mondo dalla nascita di Cristo, e dunque questa profezia deve ancora compiersi. Del resto, la stessa opinione che nulla sia mutato è condivisa da numerose persone non cristiane o appartenenti all’ateismo. Difficile dare loro torto, specie in un momento tragico come quello che stiamo vivendo, in cui la furia dell’odio, degli eccidi bellici e delle atrocità sembrano aver superato ogni limite mai supposto nel più spaventoso degli incubi.
Eppure...
Proviamo a considerare la visione di Isaia partendo dall’inizio. Dice il profeta: “Da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.” Noi sappiamo che Gesù di Nazareth, storicamente parlando, venne appunto da quella terra. Egli stesso volle evidenziare come un particolare rilevante l’aspetto della provenienza geografica quando, parlando con la Samaritana, affermò: “la salvezza viene dai Giudei” (Giov. 4, 22). Se tuttavia era davvero Lui questo strumento divino di salvezza, se Lui era il sovrano destinato a giudicare tutte le genti, cosa è cambiato a seguito della sua venuta nel mondo? Cosa mutò quando Egli inviò i suoi Dodici, e tanti altri dopo di loro, a rendere testimonianza alla sua vittoria sulla morte fino ai confini della terra?
Una risposta autorevole su questo punto viene dai Padri della Chiesa, come ad esempio dagli scritti di S. Giustino e S. Ireneo i quali sottolineano che la volontà di forgiare “le lance in falci” si realizza anzitutto nell’intimo di ogni convertito al cristianesimo. Il Regno di Dio si diffonde dal cuore dell’uomo: il punto di svolta di tutta la storia umana è il momento in cui, a imitazione di Cristo, qualcuno tra i suoi seguaci cominciò a non voler resistere al male e a porgere l’altra guancia. Ecco la traduzione letterale delle parole di Isaia 2, 5, citate più sopra. Si tratta di un atteggiamento unico, non condiviso da alcuna altra confessione religiosa, tanto meno dall’Ebraismo o dall’Islam, le altre due grandi monoteiste, che si muovono ancora secondo la logica dell’”occhio per occhio e dente per dente” (Esodo 21, 24) e dunque non arriveranno mai a trovare una composizione dei propri conflitti. Assorbire il male in se stessi sull’esempio del Figlio di Dio, far sì che si fermi e non vada oltre: tutto parte da questo punto nodale per il genere umano. Persino gli anni di questa nostra ultima era sono contati a partire dal momento in cui nacque Colui che sussurrò al mondo il grande segreto, quando pronunciò queste ineffabili, supreme parole: “amate i vostri nemici” (Matt. 5, 44).
E tuttavia ciò non implica una realtà puramente interiore e personale della fede. Al contrario, agendo come un sostrato comune, questa disposizione d’animo ha un preciso peso nel delineare il profilo di una civiltà. Consapevolmente o inconsapevolmente, la mentalità collettiva subisce una trasformazione nel modo di guardare le cose, secondo princìpiche divengono parte integrante della società che ha accolto le parole di Cristo. Tanto più è grande, infatti, il numero di coloro che hanno accettato l’invito divino a conformare il proprio intimo a questo messaggio, tanto maggiore è l’evidenza della sovranità dell’Altissimo in ogni campo culturale della nazione a cui essi appartengono, non solo in ambito propriamente religioso, ma in ogni settore, politico, sociale, economico che sia: insomma in tutta la realtà. Io credo infatti che l’affermarsi del regno di Dio non sia una semplice sommatoria aritmetica di persone, in cui uno più uno fa nient’altro che due. Ciò che si genera, invece, è una sorta di ‘plusvalenza’, a voler usare un paragone preso dall’economia, per cui la somma di più realtà individuali crea una differenza di valore positivo che si trasferisce a un ordine superiore, cioè a un livello esterno e comune ad ogni singolo individuo. Ecco dunque che, singolarmente, si possono anche trovare frequenti fragilità tra coloro che seguono il messaggio della fede, debolezze, imperfezioni proprie della natura umana. Può accadere, per intenderci, che il politico di dichiarata fede cattolica dia scandalo nella vita privata, per non parlare purtroppo a volte delle stesse persone consacrate alla Chiesa. Oppure, al livello della vita quotidiana, può accadere di incontrare tutte le settimane il nostro vicino di casa alla funzione domenicale, e poi ritrovarlo nelle riunioni di condominio, inflessibile e agguerrito più che mai su cose da nulla. Anche costoro, però, pure nell’incertezza del cammino personale, contribuiscono assieme a tutti gli altri a formare un orientamento comune, a condividere più o meno consapevolmente una visione diversa della vita, che vi si attengano o meno.
Si tratta di una spinta aggregante insita nel messaggio del Salvatore e nella grazia soprannaturale del suo regno, manifestata nella pace, nel rispetto per la libertà umana, nella solidarietà. Una spinta che ha mosso intere nazioni di prevalente fede cristiana ad abbattere le barriere tra terre di confine, a instaurare regimi democratici, ad accettare una convivenza pacifica anche nella diversità. Tutto questo è avvenuto in primo luogo negli Stati Uniti, e ha trasformato in breve tempo il nord America nella maggiore potenza mondiale. Tutto questo, ancora, sta avvenendo in Europa, secondo un processo molto più recente. Non è davvero lontana infatti la memoria delle guerre delle ultime generazioni europee, finché il soffio delle parole di chi ha insegnato l’amore verso il proprio avversario non ha spirato anche sulle nostre terre, spingendoci a unirci anziché combatterci. Così abbiamo fuso l’acciaio delle nostre spade per trasformarlo nei vomeri e negli aratri di un mercato comune, sostituendo al terrore e alla morte tutto ciò che la Sacra Scrittura promette: la prosperità, lo scambio fattivo nella fratellanza, la pace.
Chi dunque sostiene che le profezie bibliche non si sono realizzate con la venuta di Cristo, confonde probabilmente la diffusione progressiva della sua grazia con l’erronea pretesa di trovarsi di fronte a un processo già compiuto.
La realtà del regno dei cieli, in altri termini, si sostanzia visibilmente in mezzo a noi anche attraverso i fatti della storia. Il Dio in cui crediamo non è un Dio delle teorie, delle parole vuote, delle ideologie filosofiche: il nostro è un Dio dei fatti. Lo è sempre stato, fin dai tempi degli antichi padri, di Noé e di Abramo e degli altri, i quali percepivano l’esistenza dell’Essere Supremo negli avvenimenti della propria vita e lo testimoniavano narrandoli.
Allo stesso modo anche ai nostri tempi, negli eventi della nostra epoca, è possibile riconoscere la validità del messaggio evangelico attraverso l’evoluzione mondiale del progresso pacifico e libertario nelle nazioni che hanno accolto il Figlio di Dio. Come ostinarsi a non vedere, come non percepire in tutto questo un elemento di svolta, un tracciato le cui coordinate possono condurre l’intero genere umano verso la condizione presagita negli ‘ultimi giorni’ del profeta? Ecco perché rifiutare le radici cristiane delle nazioni - dell’Europa in particolare, come avvenuto nella Costituzione sottoscritta ultimamente tra i Paesi aggregati del nostro Continente - rappresenta un passo di proporzioni bibliche, questo sì, ma in senso negativo, un punto di regressione di gravità incolmabile. “Non si taglino le radici dalle quali si è nati!” tuonò a questo proposito il Santo Pontefice Giovanni Paolo II in una della rare occasioni in cui lo si è mai visto davvero irato.
A nessuno di noi il Signore richiede di essere esimi studiosi, grandi esperti in politica o economia, per comprendere le sue vie. Non sarebbe neanche giusto, troppe persone rimarrebbero escluse dalla percezione della verità. Il nostro Dio ama i semplici: semplicemente basandoci su fatti oggettivi, perciò, osserviamo la cronaca più recente, guardiamo cosa ne è stato del regime sovietico, del dittatore che ha tentato di imporre dall’alto principi di ateismo sovvertendo un’eredità di culto millenaria in un Continente che l’ha sputato via, lo ha repulso per tornare alla propria libertà di fede.
Guardiamo a cosa succede in Medio Oriente, agli orrori che accadono per l’estremismo ideologico di popoli che sfogano nel sangue la propria pretesa religiosità e, pur professando una fede nel nostro stesso Dio, non riconoscono in Cristo colui che Egli ha mandato come Salvatore, l’unico che possa conciliare attraverso di Sé gli estremi di giustizia e di pace.
Guardiamo, infine, cosa di gravità non minore, quanto sta accadendo a un’Europa che lentamente regredisce dalle proprie basi spirituali per abbandonarsi alla freddezza di un’indifferenza materialistica verso le proprie e le altrui convinzioni religiose. Il benessere infatti appesantisce il cuore: sempre, quando i popoli si sono ritrovati nell’opulenza, anziché ringraziare Colui che li colmava di doni, si sono allontanati da Dio. Le conseguenze tuttavia non si sono mai fatte attendere a lungo, purtroppo. Parlando di cronaca, ricordiamo i fatti di triste notorietà avvenuti in Francia durante questi ultimi giorni, l’assalto della sede giornalistica parigina e l’eccidio dei suoi collaboratori da parte di estremisti islamici. In confronto alle stragi di intere genie perpetrate in molte altre zone del Globo sembrerebbe quasi un fatto secondario, eppure la valenza simbolica dell’evento, una spia di allarme sul processo degenerativo in atto nei nostri valori, spiega la risonanza dell’indignazione mondiale che esso ha suscitato.
Per non trasferire la riflessione dall’ambito della fede a quello della sfera socio-politica, aggiungerò solo una breve considerazione a quest’ultimo riguardo. Vorrei citare, cioè, il testo davvero profetico di un articolo apparso nella prima pagina de “la Repubblica” - quotidiano della sinistra laica – nell’ormai lontano anno 2003, per l’esattezza il 23 settembre. A proposito delle radici cristiane del continente europeo, in questo articolo si leggeva: “Non si può eludere il fatto che le nostre moderne istanze politiche si radicano proprio nel cristianesimo. [...] Come accogliere l’altro se si nega se stessi? Come saldare un patto tra le comunità umane se l’Europa rifiuta di riconoscersi?” Il fatto strabiliante è che a scrivere queste parole è stato un musulmano, Khaled Fouad Allam, europeo di adozione e docente di islamistica all’Università di Trieste. Sebbene il testo sia stato riproposto dall’Avvenire e da altri quotidiani nei giorni successivi alla prima pubblicazione, io credo che non sia stato valorizzato abbastanza. Lo riporterò per intero qui in appendice, per chi vorrà leggerlo. A mio avviso è una specie di carta costituzionale della pace tra due civiltà arrivate ormai ai ferri corti, mai tanto necessaria e attuale quanto nei nostri ultimi giorni, in cui quanto presagito dalle implicazione che il citato interrogativo poneva, è esploso in tutta la sua drammaticità. Come accogliere l’altro se si nega se stessi?
L’autore conclude l’articolo paragonando il nostro continente a quel ramo di ulivo di cui si parla in una sura del Corano, “che non viene né da oriente né da occidente.”
Ed è così perché viene dal cielo. E’ un ulivo di pace che vuole verdeggiare ancora nelle nostre nazioni d’Europa come potrebbe farlo in una terra da giardino che ha accolto la parola di Cristo nell’amore e nel rispetto dell’altro: chi vuole estirparlo estirpa se stesso assieme all’unica speranza per tutto il resto dell’umanità. Che un popolo, cioè, non alzi più la spada contro un altro popolo, per concludere con la visione di Isaia, né si eserciti più nell’arte della guerra.
“Venga il tuo regno”.
APPENDICE
Io, musulmano nell´Europa cristiana
di Khaled Fouad Allam
Mentre le preoccupazioni sul declino dell´Europa si fanno sentire sempre più chiaramente - drastico calo demografico e dunque forte invecchiamento della popolazione, stagnazione economica, paralisi politica, divisione fra i popoli europei, scetticismo intellettuale - forse non ci si è chiesti che cosa pensino dell´Europa i nuovi europei, quelli che come me vivono qui anche da oltre vent´anni, e che vi sono approdati per ricostruire la propria esistenza, per sperare in una vita migliore.
Educato nell´islam, musulmano, ho lasciato una terra, l´Algeria, che ha generato Sant´Agostino, Albert Camus e uno dei più grandi mistici dell´islam, Sidi Abu Meddin. Ho imparato a vivere in un islam di testimonianza, capace di confrontarsi e di rimettersi in causa nei confronti dell´altro: ed è perciò che la questione delle radici d´Europa interroga il mio essere europeo e musulmano. Le questioni in gioco sono molteplici, complesse, difficili, ma una è essenziale: quella dei fondamenti dell´identità europea.
Nell´odierno momento storico esistono gli europei, ma non esiste l´Europa: e il richiamo di Giovanni Paolo II alla questione delle radici cristiane del continente assume un´importanza centrale, e richiede molto più di una semplice lettura storica e culturale.
Certo, più d´uno ha contestato un tale approccio: alcuni temono che quel richiamo possa trasformarsi in uno strumento per infrangere i principi della laicità; altri, appellandosi alla sfera giuridico-costituzionale, affermano che il compito di una costituzione è quello di organizzare i rapporti fra i diversi poteri.
Tutti questi argomenti mi sono sempre apparsi deboli: quella in discussione non è infatti una costituzione, ma una convenzione europea, vale a dire un patto che richiede di riconsiderare le ragioni del nostro stare insieme, della nostra condivisione di valori e, infine, di chiederci come uno spazio politico in itinere possa essere considerato anche uno spazio di speranze.
La questione posta dal Santo Padre ci porta a riconoscere che il pensiero politico non si riduce a un´expertise contabile, e che è sempre necessario interrogare la politica, purché non la si riduca a strumento di manipolazioni o a cinica espressione del potere; con la domanda sulle radici cristiane, è la politica che ci invita a interpretare, a interrogare dei saperi per capire e costruire, a formulare delle ipotesi. Mi sono chiesto più volte perché il tema delle radici cristiane susciti ancora tante polemiche, mentre la parola "mercato" suona come leit motiv in tutto il testo della convenzione, e come mai ciò non abbia suscitato alcuna riflessione sul rapporto fra mercato e costruzione europea.
Certo, a prima vista è possibile dare un´interpretazione esclusivista delle parole "radici cristiane", ma si tratta di una lettura errata perché non tiene conto del contesto in cui la questione si colloca: quella domanda si situa come prolungamento di venticinque anni di attività del papa sulle vie del pianeta.
In realtà, l´insistere di Giovanni Paolo II sulla questione delle radici cristiane d´Europa non deve essere separato dalle sue molteplici iniziative di dialogo: dalla preghiera di Assisi del 1986 al suo incontro con il rabbino Toaff nella sinagoga di Roma, dal suo viaggio in Israele al suo incontro nella moschea di Damasco con il muftì di quella moschea, e prima ancora all´incontro di Casablanca con la gioventù marocchina nel 1985. Tutto ciò ha definito un nuovo sguardo, una nuova lettura del cristianesimo che la storia dei secoli passati aveva impedito. E la costruzione europea, all´orizzonte del XXI secolo, avviene parallelamente al definirsi di questo nuovo cristianesimo che si è emancipato dalla propria storia e che ha interiorizzato la secolarizzazione. In effetti, che cosa fa il Santo Padre se non rinnovare costantemente il viaggio di san Francesco verso i sultani del mondo, verso le altre culture e religioni?
Le polemiche sulle radici cristiane d´Europa mettono a nudo le nostre contraddizioni: il rifiuto di ammettere quelle radici è sintomo di un timore, di un blocco interiore nei confronti di tutto ciò che i ragazzi europei, oggi quarantenni, hanno imparato sui banchi di scuola (crociate, guerre di religione, la notte di san Bartolomeo, etc.): ma la storia richiede distanza critica e onestà.
Non si può eludere il fatto che le nostre moderne istanze politiche si radicano proprio nel cristianesimo: il diritto e le istituzioni sono frutto dell´elaborazione complessa che questa civiltà ha prodotto, oltre che delle lotte fratricide che l´hanno segnata nei secoli passati.
Ma c´è anche qualcosa di più profondo, che ha segnato in modo indelebile questo continente le cui frontiere culturali sono molteplici ma in cui riconosciamo un´unica essenza, che difficilmente si riesce ad elaborare razionalmente in modo univoco ma che è presente nel cuore più profondo dell´essere europeo: la passione per la libertà - ovvero le passioni democratiche - e il sentirsi partecipi di una storia comune, che ha fatto del cristianesimo il punto focale intorno cui l´Europa si è definita. È così che ci si commuove dinanzi a un Cristo di Cimabue o ci si sente incantati dalle Madonne rinascimentali, che ci si sente travolti all´ascolto di un mottetto di Bach o del Requiem di Mozart. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza quel debito. L´Europa è debitrice verso il cristianesimo: perché, che lo voglia o no, esso le ha dato forma, significato e valori. Rifiutare tutto ciò significa, per l´Europa, negare se stessa.
La questione delle radici cristiane d´Europa, in un momento in cui tutti parlano di eterogeneità delle culture e di multietnicità, suscita altre problematiche: come accogliere l´altro se si nega se stessi? Come saldare un patto fra le comunità umane se l´Europa rifiuta di riconoscersi? Le radici affondano nella terra, dove incontrano e incontreranno altre radici. Se le radici del cristianesimo affondano nel mondo ebraico e in quello greco, oggi esso incontra l´islam, domani l´Asia e l´Africa.
L´incontro è possibile soltanto se si è consapevoli delle proprie radici. Pensare alle radici d´Europa significa pensare ai possibili, a volte inediti, prolungamenti del continente. Oggi l´America, la Cina, l´Africa ci interrogano, ognuna con le proprie radici fatte di dolore e di speranza, mentre in terra d´Europa l´inquietudine ha già preso forma e si sta diffondendo. L´Europa, faccia a faccia con se stessa, è ricca di saperi ma restia ad accettarsi. Ma per me essa rappresenta l´albero d´ulivo che nel Corano, al versetto 35 della Sura della Luce, è "né d´oriente né d´occidente".
La Repubblica, 23.09.2003.
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