Ricordarsi di te è ripercorrere una lunga malattia, la peggiore,ossia quella che veniva chiamata “ dimente”. Chi erano , fino a cinquant’ anni fa , i malati dimente? Forse oggi persone che verrebbero ritenute appena appena “spostati” , “strambi”…ma al tempo degli ospedalipsichiatrici, dei manicomi chiusi, eradiverso. Ci si entrava molto facilmente!E i medici, allora, potevano anche attestare la “ pericolosità” sociale di unindividuo. Una marchiatura a fuoco pertutta la vita.
Tu cominciasti ad ammalarti daragazzo. Sempre molto nervoso, polemico; avevi scatti di nervi che tua madre non capiva. Ricordo come guardavi unpunto fisso,con le iridi chiare , fermecome pietre dure, su cose che vedevi solo tu e diventavi livido in volto. Fumavisempre, in continuazione, una Nazionalevia l’altra, avevi forse vent’anni, credo. In poco tempo la nicotinati segnò le dita scarne sino all’attaccatura del palmo. Prendesti l’abitudine di fumare in cameratua, e l’aria lì era ammorbante. Dormivi la notte, dentro al tuo fumo , poichè proibivi chequalcuno aprisse le finestre della camera. Una camera che s’affacciava su diuna calle, quindi senza luce per gran parte del giorno. Ti ricordo con i capelli biondi sempre ispidie ritti; nei momenti della tua silenziosa disperazione, ficcavi dentro lemani nei capelli ed essi ti spuntavano tra le nocche. Stavi ore in silenzio , così , nella tua camera.
I primi ricoveri li hai conosciuti in una clinicaprivata , in collina. La famiglia provòun trattamento meno duro di quellodei reparti ospedalieri ordinari. Venimmo a trovarti a Feltre in una giornata fredda dimarzo; io ero adolescente, e camminavo dietro aiparenti, ultima della fila , nel lungo corridoio pittato di bianco, sovrastato alla fine da un grande crocifisso ligneo. Alle finestre della vecchia villa che ospitava la clinica, confusa in un magnifico parco, erano apposte sbarre laccate .Sbarre a tutte le finestre e per entrarenella tua stanza un infermiere aprì latua porta con una chiave, dall’esterno.Ricordo che ti intravidi seduto sulla sponda del letto, in pigiama. Le imposte erano socchiuse. Io non entrai.
Dopo un breve periodo di cura, tornasti a casa inebetito dalla “ cura del sonno”, così la chiamavamo. Credosi trattasse di somministrazioni dipotenti psicofarmaci. Cercavano di calmarti facendoti dormire. In casa siviveva sempre in silenzio, sussurrando le parole perché tu passavi ore nel sonno. Un sonno buio , assurdo e senza sogni. Qualche volta tua madre salivaalla tua stanza, bussava, ti lasciava del te e dei biscotti su di unvassoio, davanti alla porta. Ritornava senza dire una parola. Uscivi dalla camera solo qualche volta, per lavarti. Tua madrepaziente, in cucina , ti faceva sedere davanti alla finestra, ti insaponava il viso e ti faceva la barba, con pennello erasoio. Mentre facevo i compiti, nel salottino, sentivo che ti rivolgeva domande, ma tu rispondevi a monosillabi.
Ti portarono da moltiprofessori, veri luminari. I loro nomi venivano mormorati appena, erano medici dei pazzi, la cosa era risaputa.
Avevi crisi sempre più frequenti e la parola schizofrenia prese il sopravvento . Non c’era modo di tenerti in casa . Ti avventavi contro la serva, la insultavi;tentasti più volte di soffocarti con dei fazzoletti, che qualcuno ti strappò di bocca, e poi piangevi disperato. Avevi anche iniziatoa grattarti furiosamente una cavigliae in poco tempo eri tutto piagato. Tuamadre ti medicava ogni giorno,implorandoti di smetterla chè eri già incarne viva. Io assistevo ogni tanto a queste medicazioni: la tua piaga mi era famigliare, un giorno era blustra, unaltro rosso vivo. Camminavi in continuazione, malgrado le bende , e fumavi. Fumavi pacchetti interi e tossivi fino al vomito. Dormivi vestito, buttato sopra le coperte, e accumulavi giornali e ritagli nella camera. Alla fine impedisti achiunque di entrarci. Ogni tanto lanciavi grandi urla che finivano in un silenzio inumano. Iniziasti così , seppur giovane, il tuo viaggio senza ritorno dentro gli ospedali psichiatrici. Lalegge Basaglia era di là da venire. Imanicomi erano carceri. Carceri dentro vastissimi parchi dove gli ammalati , in pigiami a righe, maglioni e ciabatte, giravano a vuotocon le loro fissazioni, guardati a vista dagli infermieri. Laospedalizzazione consisteva nella costrizione fisica del malato di mente. Lettidi contenzione, camicie con lacci ,elettroshock.
Venni una volta a trovarti, assieme a tua madre, inuno di questi ospedali. Avevamo fatto un lungo viaggio in treno. Tua madre tiportò dei panini dolci, imbottiti di ottimo prosciutto san Daniele. Da quand’ eri ricoverato, tua madre vestiva sempre di nero e, religiosa come era,aveva fatto svariati voti alla Vergine, donando i pochi “ ori” che aveva , alla Chiesa.
Chiedemmo di tead un grosso infermiere ; ci rispose che eri in giardino con gli altri. Itranquilli. Ricordo quando, dopo un breve girovagare, ti trovammo, solo, seduto su di una panchina. Avevi perso parte dei capelli ed eri molto dimagrito. Eri privo dei denti incisivi superiori. Te li eri tolti da te. Era una giornata soleggiata e tu sembravi rilassato. Sembravi….sapevamo che ti facevano iniezioni calmanti tuttii giorni. Tua mamma , traendoli dalla borsa, ti mise davanti , in fila, i panini, guardandoti sorridente: “ Li vuoi Antonio? Sono buoni , il prosciutto è dolce”.
Tu la fissasti , fissasti ipanini e con un gesto deciso li gettasti a terra, tra i sassolini. Si aprirono e il finissimo prosciutto crudofinì sotto la panca : “ Portami via da qua, io non sono matto ” dicesti, riprendendo a fumare. Guardavi i passeri mangiare il pane e non parlasti più.
Sei morto all’età di 44 anni,senza riprendere più laragione. La ragione intesa come la intendiamo tutti. Ma la tua ragione , forse, non l’ha ascoltata nessuno. In qualche raromomento di lucidità mi domandavi come andavoa scuola o se avevo un moroso, ma nonattendevi mai la mia risposta. Tidistraevi immediatamente e in pochi minuti già eri rientrato nel tuo mondo.
Sei sepolto in un piccolo cimitero del Friuli, perso in mezzo alle vigne di merlot. Vicino a tuo padre e a tua madre. Lapiccola foto della lapide ti mostra conle braccia strette al petto, sulla difensiva, assomigli vagamente a Cesare Pavese.
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