Pubblicato il 10/05/2010 22:21:15
Agorà, il film del regista spagnolo Alejandro Amenábar, che racconta la tragedia di Ipazia d’Alessandria, è davvero scioccante. Anche per chi su Ipazia ha già letto qualche libro. Perché la potenza delle immagini in celluloide è in grado di suscitare sentimenti, pensieri ed emozioni di una rapidità e intensità tale che nessuna parola scritta può eguagliare. Uscito dalla sala, non puoi non continuare a riflettere sulle vicende narrate nel film. E magari a immaginare in che mondo vivremmo se avesse vinto Ipazia, e non l’episcopo Cirillo. Eh sì, perché la storia di Ipazia si colloca in un periodo di svolta storica, tra il IV e il V secolo d.C., dei cui effetti deleteri, nonostante le moderne Rivoluzioni e l’Illuminismo, il liberalismo e la democrazia, non ci siamo ancora completamente liberati.
Quali le questioni centrali? Quelle che ancora oggi oppongono in gran parte clericalismo e laicità. E cioè: a) il rapporto tra Stato e Chiesa; b) l’autonomia della ragione dalla fede; c) l’eguaglianza giuridica uomo-donna.
Tra il IV e il V secolo, come noto, prima Costantino legittima il cristianesimo, e poi Teodosio I, con l’editto di Tessalonica (380), lo eleva a religione ufficiale dell’impero. La Chiesa si fa Chiesa di Stato. Inizia la caccia alle eresie. I culti pagani sono vietati per legge. Le sacche di resistenza sono gradualmente soppresse. In questo clima si consuma la tragedia di Alessandria descritta in Agorà. Da un lato il vescovo Cirillo, dall’altro Oreste, il prefetto augustale, governatore di Alessandria. Nel primo grande conflitto tra Stato e Chiesa, Cirillo vince, Oreste perde. Non si inginocchia davanti al Libro Sacro brandito da Cirillo come una spada, ma poi si sottomette e infine si dimette. Tutto il potere va al vescovo. I dignitari imperiali costretti a convertirsi. Gli ebrei “deicidi” scacciati. I templi pagani abbattuti, incendiati o trasformati in chiese cristiane. Scompare quel che restava della città-polis greco-alessandrina, simboleggiata nel titolo del film, l’agorà, ossia la metaforica “piazza” della politèia, dove si fa politica, si discute, vota e decide. Cirillo impone la sua dittatura politico-religiosa, ferocemente repressiva e oscurantista. Quante volte, vien da chiedersi, nella storia dell’Europa imperatori, uomini di Stato, governanti e primi ministri si inginocchieranno davanti a papi, vescovi e cardinali? Di schiene piegate di politici pullula la storia occidentale, fino ai ripetuti e ostentati baciamani di Berlusconi a Benedetto XVI. Il quale, in forme e modi diversi da Cirillo, adeguati ai nostri tempi, a che cosa mira con la sua strategia del «reingresso di Dio nella sfera pubblica» se non a perseguirne gli stessi scopi: la sottomissione della politica alla religione, dello Stato alla Chiesa?
Ma dietro Oreste c’era Ipazia. Che non era soltanto l’ultima grande filosofa e scienziata antica, dedita alla matematica e all’astronomia, alla direzione della più rinomata scuola di studi accademici della sua epoca. Era anche un’intellettuale che faceva un uso pubblico della ragione. Possedeva, come si vede nel film di Amenábar, e si legge nel bel libro di Gemma Beretta (Ipazia d’Alessandria, Editori Riuniti, 1993, purtroppo fuori commercio), la virtù greca della parrhesìa, cioè la capacità di parlare e agire in pubblico, nella sfera pubblica, e in particolare tra i dignitari e i potenti della città, per discuterne le scelte e le decisioni. «Se non è il cristianesimo, qual è il tuo criterio di giudizio», le chiedono malevoli i funzionari imperiali. «La filosofia», risponde Ipazia, ossia la ragione, la libertà e l’autonomia della ragione da ogni credo, dottrina e dogma religioso. La risposta di Ipazia, che precorre quella famosa di Kant alla domanda Che cos’è l’illuminismo?, è di una modernità straordinaria. Non solo infatti la laicità dello Stato, ma il pensare e il vivere civile dipendono dall’autonomia della ragione, di ciascuno e di tutti, e dal suo uso pubblico e critico contro ogni forma di autoritarismo e assolutismo. Il contrario delle ambizioni teocratiche di Cirillo alessandrino, fanatico e violento assertore dell’assolutezza della Verità e del potere clericale, come poi sosterranno tanti futuri papi e vescovi cirillici, fino ai tempi nostri. Se avesse vinto Ipazia, facile e felice profezia, non avremmo avuto il caso Galilei. E nemmeno il caso Darwin. Né Crociate, Inquisizione, guerre di religione e Concordati. La fede sarebbe rimasta una questione privata dei fedeli. Separata dalle loro libere scelte politiche.
Ipazia studiava e ricercava, parlava e agiva «senza vergognarsi di essere donna». Donna che conta, tra uomini che contano. Anzi, a loro superiore per conoscenza e saggezza. Come osava? Cirillo, malato di misoginia come Paolo di Tarso, non poteva che odiarla. La donna? Un essere inferiore e peccaminoso, l’Eva tentatrice, alleata di Satana. Da zittire e sottomettere al maschio, prima e vera immagine di Dio. O da eliminare. Per Cirillo, ad eccezione della Vergine Maria theotòkos, Mater Dei (fu santificato per la formulazione di questo dogma), l’inferiorità della donna è un dato naturale, indiscutibile. Come lo è nella dottrina e nella struttura della Chiesa. Nella teologia femminista circola la “leggenda di S. Bernardo”: «Si racconta che stesse pregando davanti all’altare della Madonna. Improvvisamente Maria apre la bocca e comincia a parlare. “Taci, taci!” grida disperato S. Bernardo, “le donne non possono parlare in chiesa”» (riportato in nota da Beretta, pp. 266-267). Né in chiesa né fuori, in verità. Perciò Ipazia doveva scomparire. «Sia lapidata a morte!», forse disse Cirillo. Certo, fu il mandante morale dell’assassinio. Su cui il regista del film stende un velo di pietà. Inventando Davos, lo schiavo innamorato, e l’epilogo del soffocamento. Altro dicono le fonti: tirata giù dal carro dai parabalani inferociti, fu denudata e scarnificata viva «con i cocci», gli furono cavati gli occhi, poi fu «fatta a pezzi membro a membro», e infine i resti vennero bruciati al Cinerone. Come i preziosi libri della biblioteca alessandrina del Serapeo. Fanatismo religioso, disprezzo del libero pensiero e rogo di libri proibiti, talvolta con i loro autori, sono stati una costante della passata storia della Chiesa. Che, pur messa alle corde dal moderno processo di secolarizzazione, tuttora continua però a ritenersi, come il suo santo Cirillo, depositaria della Verità di Dio.
In un calendario laico, Ipazia sarebbe la prima martire e santa.
Da Micromega http://temi.repubblica.it/micromega-online/
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