Le dinamiche – senza limiti – della guerriglia nel deserto globale
da
Lawrence a Clint
«L’assegnazione delle spedizioni non fu mai ortodossa. Era impossibile fondere o assemblare tribù diverse, perché di solito non andavano d’accordo o non si fidavano l’una dell’altra. Analogamente, non potevamo impiegare membri di una tribù nel territorio di un’altra. Di conseguenza, miravamo alla più ampia distribuzione delle forze, per disporre del maggior numero di bande contemporaneamente. Aggiungevamo fluidità ai loro movimenti agendo ogni giorno in una diversa porzione di territorio. Questo favoriva la naturale mobilità delle bande. In più, avevamo l’incomparabile vantaggio di disporre di forze sempre fresche nelle diverse aree tribali. Il massimo disordine era in senso stretto il nostro punto di equilibrio».
(T. E. Lawrence)
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 con l’inizio della global war on terror di George W. Bush, il conflitto armato si spoliticizza e il nemico, persa la legittimità, viene definito in termini morali. Il “terrore”, che combatte la sua guerra asimmetrica con il ricorso ad attentati e attacchi terroristici, ci appare come un evento, una pandemia, una piaga da cui proteggersi e da eliminare.
Il conflitto bellico, in assenza di un nemico a cui attribuire un qualche riconoscimento, oggi è concepito come un’operazione di “polizia” o “pulizia” globale che si concluderà solo con la cattura o l’eliminazione dei criminali (Milosevic, Saddam Hussein, Bin Laden). Tutto questo è chiaro a Clint Eastwood che nel suo ultimo film American Sniper, magistrale lavoro di propaganda della controguerriglia, fa vivere allo spettatore una tensione impensabile nelle pellicole che raccontano le guerre del passato di clausewitziana memoria, una tachicardia all’altezza di Profondo Rosso o Seven, che lo catapulta dentro una battuta di caccia al serial killer.
Gli ingredienti del thriller sono tutti presenti nella pellicola: inseguimenti, appostamenti, pedinamenti e il ritrovamento all’interno del covo dei cimeli dell’assassino, arti e teste mozzate delle sue vittime. La storia raccontata nel film è tratta dall’autobiografia del soldato Chris Kyle, interpretato dall’attore Bradley Cooper, un texano cresciuto nella convinzione, trasmessagli dal padre il giorno che lui uccise la sua prima preda durante la caccia, che al mondo esistono tre tipi di persone: i lupi, le pecore e i cani da pastore, gruppo questo ultimo nel quale Chris si riconosce. Kyle, che lavora come cowboy precario, decide di arruolarsi nei Navy Seal non per un conato di patriottismo dopo gli attentati alle ambasciate statunitensi del 1998 in alcuni paesi africani, ma, secondo Clint Eastwood, dopo essere stato tradito dalla sua ragazza mentre partecipava a un rodeo. Le corna, che pesano sulla testa del vaccaro, radicalizzano i valori fondanti del mito americano della frontiera. Tutto ciò non si sarebbe visto nei film di John Wayne.
Durante il periodo di duro addestramento Chris incontra Taya, interpretata dall’attrice Sienna Miller, la ragazza che porterà sull’altare. Dopo il matrimonio Kyle viene inviato come cecchino in missione in Iraq e grazie alla sua abilità nell’uccidere i nemici si meriterà il soprannome di “Leggenda”, mentre i miliziani iracheni lo ribattezzano Shaitàn Al-Ramadi (“Il diavolo di Ramadi”) e mettono sulla sua testa una taglia di 180 mila dollari per la sua uccisione. Chris si recherà in Iraq per ben quattro turni, continuando a uccidere guerriglieri e consolidando la sua fama di cecchino più letale nella storia delle forze armate statunitensi.
“Leggenda” quando rientra a casa dalle missioni non riesce a reinserirsi nella quotidianità e a relazionarsi con le persone. Gli manca il fronte. Vuole rendersi utile al suo paese, uccidere altri terroristi perché, come scriverà nelle sue memorie, è qualcosa che amava fare. Quando sembra avere trovato uno scopo nella vita civile, aiutare i reduci a riadattarsi, viene ucciso, senza apparente motivo, da un commilitone affetto da disturbo post traumatico da stress. Il suo funerale si trasforma in una parata a cui partecipano migliaia di texani.
Forse ha ragione Kathryn Bigelow, la regista che per prima ci ha mostrato il conflitto bellico come operazione di polizia, quando nella sua pellicola The Hurt Locker, vincitore di sei premi Oscar, ci dice: «La guerra è come la droga, crea dipendenza».
La trama del film è incentrata su una squadra di artificieri e sminatori dell’esercito statunitense, specializzata nella neutralizzazione di ogni tipo di ordigno esplosivo, in missione in una città irachena. I soldati agiscono in un ambiente urbano dove ogni oggetto e veicolo potrebbe rivelarsi una minaccia. Anche in questa storia il rientro a casa a fine turno dei militari è traumatico: la vita quotidiana non fa più per loro. Solo il ritorno sul campo di battaglia li appaga e asseconda la loro sete di adrenalina ormai degenerata in follia.
Vi invito a vedere anche un terzo film che ci racconta la guerra senza limiti: Zero Dark Thirty, sempre per la regia di Kathryn Bigelow, che ci narra dell’uccisione in Pakistan, da parte dei Navy Seals, di Osama Bin Laden. Anche questo film ha il ritmo del thriller mozzafiato e la protagonista, l’agente della Cia Maya Lambert, interpretata da Jessica Chastain, richiama la poliziotta federale Clarice Starling de Il Silenzio degli Innocenti. La regista mostra agli spettatori la fine del diritto negli interrogatori e nelle torture, chiamate in gergo enhanced interrogation techniques, tecniche di interrogatorio rafforzate, a cui i presunti jihadisti sono sottoposti da parte degli agenti della Cia.
Mi avvicino alla conclusione, perché mentre scrivo il conflitto globale si è materializzato nelle strade di Parigi con l’attentato al giornale satirico Charlie Hebdo, con una citazione dal libro, che vi consiglio di leggere, Le nostre guerre di Alessandro Dal Lago (Manifestolibri).
«Quello che è successo dopo il 1991 descrive invece il tipo di conflitto che ci accompagnerà probabilmente per molto tempo: guerriglie e controguerriglie in remote aree rurali (Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia, Sudan) o in ambiente urbano (ancora Afghanistan, Somalia, Iraq, Cecenia, Libano, Gaza, ecc.) che in alcuni casi si prolungano in attentati nel cuore dell’occidente (e non solo); nemici impalpabili, virtuali, evanescenti, eppure capaci di infliggere colpi devastanti; popolazioni cacciate dai loro insediamenti, moltiplicazione di campi profughi e di richiedenti asilo; un senso di insicurezza generalizzato in occidente, ampiamente sfruttato per la diffusione di nuove tecnologie di controllo, una tendenza a ridurre la libertà di circolazione e di movimento, soprattutto degli stranieri, un’ostilità crescente nei confronti delle categorie di persone suscettibili di “essere” o “diventare” nostri nemici».
Se non avete capito il senso del mio articolo è questo: per le odierne strategie e tattiche militari Sun Tzu e Clausetwitz sono ormai due cani morti. Oggi che nello scenario mediorientale i confini non sono più quelli coloniali ma quelli ridisegnati dal califfato l’unica lettura del passato – per capire le guerre globali e asimmetriche – è da cercare nell’opera profetica, dell’archeologo bohémien prestato alla guerriglia, Lawrence d’Arabia.
«Eravamo rafforzati nella nostra libertà di movimento, dall’intima conoscenza del confine desertico della Siria, una zona indefinibile, per natura e ragioni storiche, contro attacchi provenienti da est. Avevo attraversato a piedi più volte il paese prima della guerra, ripercorrendo i movimenti del Saladino e di Ibrahim Pascià e man mano che la nostra esperienza di guerra si arricchiva, diventammo familiari con quella forma di intuizione geografica, descritta da Bourcet come le nozze tra terre note e ignote in una mappa mentale». (T. E. Lawrence)
I conflitti nel deserto globale ci impongono di affrontare la narrazione epica del libro I sette pilastri della saggezza di Thomas Edward Lawrence.
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