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Argomento: Società

di Roberta Volpi
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Pubblicato il 05/12/2007

...e l’impegno sociale.

La globalizzazione ci obbliga ad una sempre maggiore deferenza verso nuovi “valori”: libero scambio, competitività, investimenti, produttività, progresso tecnologico. Ma tutto ciò renderà meno poveri i più poveri? Migliorerà le nostre condizioni di vita? Manterrà insolubile l’etica dei nostri imprenditori? Favorirà l’occupazione? Garantirà l’ecosistema? Domande retoriche per le quali abbiamo già pronte delle risposte. Io mi sono interrogata sull’Arte. Che ispirazione possono trarre dalla globalizzazione gli artisti contemporanei? Riuscite voi ad immaginare un’opera d’arte “globalizzante”?

Il Cinquecento è il secolo dei ritratti, della riflessione sulla religione e sul destino dell’uomo. La riscoperta del “naturale”, della verità oggettiva, vengono introdotte tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento da Annibale Carracci e da Caravaggio: è questo un secolo in cui convivono lusso e miseria, abbondanza e carestia, libertà creativa ed oppressione politica, festosità e lutto. Ed anche l’arte, ovviamente, risente della presenza contraddittoria di questi elementi.

Carracci dipinge il “Mangiafagioli” (1584) perchè è mosso dagli stimoli della storia, perchè avverte l’esigenza di ispirarsi alla verità naturale, perchè vuole giungere ad una pittura che colpisca al cuore e all’immaginazione. E vi riesce superbamente. Il contadino è lì a consumare il suo semplice pasto, seduto ad un tavolo umilmente apparecchiato: minestra di fagioli, pane, del vino rosso. Abitudini semplici, tempi lenti, ritmi di vita assai duri ma probabilmente non stressanti, l’antitesi delle nostre vite di oggi: pasti veloci, precucinati, surgelati, in piedi davanti ad un bancone self-service; obesi galleggiamo in paludi di maionese ed anneghiamo in ettolitri di birra e tavernello, con l’auricolare del cellulare nell’orecchio e il palmare nella destra, per combattere solitudine e stress e per produrre come i cinesi.

Nel 1596, sempre ispirandosi al ”naturale” Caravaggio dipinge il “Canestro di frutta”: le forme così seducenti, i colori così vividi, così invitanti che che si ha quasi la sensazione di poterne aspirare i profumi. Se fosse ancora vivo, se avesse dovuto ispirarsi al “naturale”, l’artista maledetto avrebbe potuto dipingere, sempre magistralmente da un punto di vista tecnico, ma suscitando minori emozioni, zucchini clonati, frutti gonfi di acque reflue, sfere dai nomi bizzarri incrociate geneticamente, che ci indurrebbero, tra l’altro, a porci qualche domanda sul genere e sul numero (si dice il “mapo” o la “mapa”? E il plurale?) arance lucidate con la cera, uve trasudanti di pesticidi, pompelmi transgenici e melagrane con metastasi.

Rodolfo II e i cavoli

In quegli stessi anni Giuseppe Arcimboldi traeva ispirazione dal Dio delle messi e dell’abbondanza per dipingere “Vertumno” (1591), lo stravagante ritratto di Rodolfo II di Strasburgo. La sua tensione per il nuovo, la ricerca di una espressività che uscisse dalle regole consuete per provocare reazioni ed emozioni avrebbe dovuto, anche in questo caso, contentarsi dei frutti della terra che il mercato della globalizzazione oggi offre e temo che la sua fantasia ne sarebbe rimasta profondamente ferita.

L’”ultima cena” del Tintoretto del 1592, nella sua ambigua relazione tra miracolo (gli angeli che aleggiano nel buio) e realtà, evoca invece il cibo degli dei, la lentezza nelle preparazioni, la semplicità e la cura e non già le raffinatezze inaccessibili che il geniale Stefano Benni ci descrive nel suo racconto “Il più grande cuoco di Francia”, satira memorabile contro gli snobismi enogastronomici: ”ostriche imbalsamate in gelatina, tartufi alle braci con limoni, quaglie alla negresca, zuppa di tartaruga malgascia, spuma ai pistacchi, biscotti nocciolati dei padri di Saint Verres, bignè alle pere moscadelle: una cuisine nababe da opporre alla nouvelle cuisine, “porzioni da convento di suore nane!”.

La natura e la realtà quotidiana nella pittura di denuncia

Con il Settecento si cambia musica: gli artisti si dedicano soprattutto alla decorazione ma è durante questo secolo che compaiono i primi accenni ad una pittura sociale che si manifesterà pienamente nell’800. In Francia il maggior interprete è Jean Francois Millet con le sue “Spigolatrici” del 1848. In Italia saranno i Macchiaioli ad innovare il linguaggio pittorico: al soggetto storico o all’allegoria essi contrapporrano la visione diretta della natura e della realtà quotidiana e per questi motivi verranno fortemente avversati dalla critica e respinti dalle mostre ufficiali. Il paesaggio rurale, la durezza del lavoro dei contadini, il disagio sociale, la sacralità degli animali ispirano Giovanni Fattori: con “Le macchiaiole” del 1865 e “Il carro con i buoi” del 1887 Fattori partecipa al mondo i suoi sentimenti di ammirazione e di rispetto per le faticose attività dei contadini della Maremma e delle zone agricole depresse della fascia tirrenica toscana. Anche Angelo Morbelli, come Fattori, è legato a temi di impegno sociale ed umano: tocca il cuore una sua tela in cui sono ritratte delle mondine, curve su sé stesse, con i piedi in ammollo negli acquitrini piemontesi e lombardi, impegnate nella raccolta del riso. “Per 80 centesimi” del 1893 è un concreto j’accuse sia rispetto al misero salario sia rispetto alle condizioni di lavoro tremende cui le donne erano sottoposte. Ma al contempo Morbelli riesce a lirizzare la funzione che l’agricoltura aveva ed dovrebbe avere ancor oggi nelle economie dei paesi del mondo.


Realismo sociale quello rappresentato nel celebre “Quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo del 1898. Siamo alla fine dell’800 ed una nuova classe sociale, quella degli operai, incombe in tutte le regioni del settentrione italiano: lo sviluppo dell’industria provoca massicci spostamenti di lavoratori dalla campagna alle nuove periferie cittadine con una serie di conseguenze sociali, economiche, urbanistiche. Pellizza rappresenta una folta e compatta schiera di uomini e donne che lascia un fondale dove si intuisce un paesaggio verdeggiante e viene avanti in un progressivo schiarirsi dei colori dal fondo al primo piano. Definire la classe dei lavoratori delle industrie “quarto stato” significò prendere coscienza della nascita di una nuova realtà.
L’unità d’Italia del 1870, le delusioni post-unitarie, la necessità di una rapida riconversione dell’economia verso l’industria, il formarsi di un ceto nuovo avrebbero potuto offrire agli artisti italiani più sensibili l’occasione per una pittura nuova, non priva di un senso di denuncia.
Ma non andò così: le Avanguardie del ’900 si concentrarono su altri temi: Cubismo, Dadaismo, Astrattismo, Futurismo dapprima, e la Pop Art poi, dovevano rifiutare i i valori e i modelli della cultura tradizionale e così i paesaggi bucolici, il disagio sociale, la ruralità in genere furono relegate, marginalizzate, se non addirittura disconosciute dall’arte stessa.



Il silenzio è stato rotto dall’avvento della fotografia e, più tardi, dal cinema, che hanno saputo svolgere, dalla metà dell’800 ad oggi, una azione continua ed inesorabile di rappresentazione della realtà, anche la più dolorosa, fissando fin dai primi dagherrotipi, fin dai primi centimetri di pellicola, immagini e sequenze in bianco e nero, che conserviamo gelosamente per testimoniare, con un po’ di nostalgia e un po’ di noia (per le generazioni future!) quel che oggi non c’è più, quei personaggi, quei paesaggi, quegli ambienti, quelle atmosfere, quella natura e quei frutti della terra che avevano sapori ed odori che il nostro palato ed il nostro olfatto non possono davvero immaginare.

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