“Rientrare nell’alveo di una divina quotidianità”, questo di Fiammetta Lucattini, figura cara de “LaRecherche.it” scomparsa in questi giorni, era il motto espresso con la forza e la gioia di una fede sempre viva perché con perseveranza e amore da sempre alimentata e accresciuta. Scrive Loredana Savelli che ha seguito e curato anche nella prefazione il libro (uscito da pochi mesi ed in cui in una settantina circa di testi è raccolto finalmente il suo percorso in versi) di una visione in cui fede e laicità unendosi “l’una non nega l’altra perché convergono sino a fondersi”. Ed è così, sì, anche se a nostro dire andrebbe sottolineato lo scarto in più di un’aderenza filiale e innamorata cui la parola non è altro che uno tra i motivi del suo sapersi e viversi figura di Cristo, nella sua aspirazione piena allora e totalmente rimessa nel mistero pasquale del Figlio. Lo scandalo, o l’urto che questa definizione potrebbe oggi suscitare, in realtà non è che il lascito di una donna non nell’ esemplarità mistica di un cammino ma nella risposta cui semplicemente ogni cristiano nella sua vocazione è sacramentalmente chiamato. Di qui la gioia, la sofferenza, la cura alla vita che da queste pagine traspaiono, ora nella cadenza d’ ascolto dei motivi che ogni giorno ci chiamano e legano, ora d’accoglienza e trasporto delle prove che sono dentro quei motivi. Ed in cui come già la Savelli ha ricordato ognuno può riconoscersi perché sono quelli di sempre, che vanno a definirci, o a perderci. Qui ove l’amore non tiene, o è a rischio insieme alla vita, qui dove la fatica non è riconosciuta nella solitudine degli agguati e dei rifiuti, più alta è l’attenzione nella profondità di una direzione che ha nella concreta semplicità del farsi presenza che è già azione il suo accento più alto. “La vita vera accade fra il buio e la luce”, così Yehuda Amichay in uno dei suoi versi, la Lucattini questo sapendolo bene per sensibilità personale e per consapevolezza di donna appunto, delle donne attenta e risoluta amica, sorella dei giorni feriali nella bella definizione da lei data del mondo femminile. Cosi l’attenzione alle compagne, alle amiche, sovente nel patire nascosto di tante sconosciute tra violenze e indifferenze di genere, o per malattia (sulle pazienti oncologiche come in tauromachia:”banderillas spietate nel dorso/ del tumore che muggisce come un toro esasperato”) e abbandoni si fa anche discorso sul mondo sulle sue perpetuate negazioni, sulle sue mistificazioni. Il riconoscimento infatti di una esistenza, la propria, compiutamente e lietamente espressa nei luoghi deputati della vita, dal lavoro alla famiglia, ad una socialità costruita e riconosciuta, non è per Fiammetta chiave di chiusura ma di misura di un affanno della terra piuttosto crescente, ed escludente, a partire dagli ultimi che hanno in queste pagine il volto e la caduta dei bambini, da Gaza in primis, nella violazione di una radice e di un futuro già segnato (“la mattanza non ammette ritardi”). Cristo è qui, a soffrire e a morire con noi, nel suo “sangue d’Agnello” tra i martiri ignoti alle nostre spalle (“tremavano d’angoscia/ gli ulivi nell’Orto/ mentre Lui beveva/ avidamente dal calice/ amaro con divino disgusto”), e con lui Maria segnata dalle preghiere e dai colpi dei figli, prigioniera per amore e seppure esitante generosa sempre. Pane caldo, grembo celeste in offerta e oblazione cui non resta che specchiarsi come Elisabetta, nell’apprendere, e vivere il suo Magnificat. Ciò che colpisce in questa scrittura, e nella disposizione che nell’ispirazione la guida, è allora l’equilibrato dosaggio d’amore e indignazione, di desiderio e dimenticanza di sé, di urgenza di penetrazione e nascondimento, il tutto sotto la guida sapiente di uno spirito che si sa fallibile e mortale ma anche creatura sorretta, attesa e voluta da quello Spirito di cui conosce le disposizioni e l’orizzonte. L’eco anche quello di una romanità raccontata per piccoli passi, in piccole cose, a volte quasi gozzaniamente verrebbe da dire, accompagnata anche in alcuni casi da brani in dialetto romano. Il mercato, Villa Borghese, dialoghi tra nonni e nipoti, le preghiere quotidiane, a dire per esempio solo alcuni dei momenti nella conferma di una disposizione e di un cammino di una esistenza servita e vissuta nella serenità e nella pienezza di non sapersi, e di non sentirsi mai sola nei diversi accenti, e nelle diverse dinamiche della vita. Nessuno sia solo perché nessuno è mai davvero solo è ciò che infatti prepotentemente risale da questi versi, nella forza come ricordato da subito di una fede che ha nell’atto dell’Abbandono la scelta della sua compiutezza: “Non il pensiero del dolore/ ma il flagello che libera dalla carne/ una melodia sanguigna/ non la liturgia della passione/ ma lo sputo che atterra l’anima/ non l’esaltazione del Grido/ ma la croce che innalza e separa/ non io ma Tu/ ora e sempre/ nei secoli dei secoli. Amen” (“Ogni venerdì”). Tanta confidenza d’amore, è ciò che resta nella perseverate e determinata mitezza dell’offerta anche negli interventi su questo sito. Per questo ci mancherà guardando al “piccolo robusto miracolo che si rinnova ogni aurora” gli occhi strofinati e aperti all’appello del suo coraggio.