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Proprio una bella pensata

di Giampiero Di Marco
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Pubblicato il 08/02/2012 14:17:25


Proprio una bella pensata!

Don Annibale Struffi era grande e grosso, come la quercia centenaria che si stagliava, robusta e nodosa, contro il muro della canonica di Rongolise.
Ancora adesso che andava quasi per i sessanta, don Annibale poteva fare a gara, se voleva, in prove di forza con i più giovani del paese.
Del resto lui la vita se l’era presa comoda e non si faceva mancare niente, ma proprio niente, per rendersi piacevole quello che gli restava da vivere.
L’affitto delle grasse terre della parrocchia gli dava una buona rendita.
Erano terre da olio e da vino quelle!
E su quelle colline le terre migliori, quelle meglio esposte al sole, erano da secoli di proprietà della Chiesa per antiche concessioni e donazioni.
I mezzadri del parroco conoscevano perfino il rumore dei passi di don Annibale che, al contrario dei tanti grossi proprietari del circondario, spesso e volentieri si presentava sui fondi criticando i metodi di lavoro e lesinando fino al centesimo il valore del raccolto, che si trattasse di olio, di vino o di grano.
Altro che i nobili che risiedevano in città e in campagna ci venivano nei giorni di sole, col calessino ad assaggiare i primi fichi.
Questi che di lavoro non capivano nulla se ne rimanevano tutti contenti a bersi le lamentele dei loro soprastanti.
Una volta la pioggia, una volta la grandine, c’era sempre una disgrazia cui poter addebitare lo scarso raccolto.
Ma con don Annibale non ci si cavava un ragno dal buco.
In tempo di raccolto se ne veniva sui fondi, tralasciando ogni ministero, e non se ne andava fin quando non aveva avuto il suo e perfino più del suo, perché si riprendeva, e con gli interessi, anche tutti i soldi che durante l’inverno aveva anticipato ai suoi contadini.
In punto a mezzogiorno sedeva alla tavola che le donne gli apparecchiavano all’aperto, ricoprendola di abbondanti portate: i ziti al ragù, con un pennacchio bianco di formaggio che sembravano monte Redentore coperto di neve, poi un pollastro arrostito e intere ruote di parmigiana e fiaschi di vino rosso freschi e sudati di cantina.
Mangiava allegramente, don Annibale, e beveva a garganella, slacciandosi il colletto bianco, acceso in viso come un peperone, ma non per questo riuscivano a stordirlo, né a fargli perdere il conto dei sacchi di grano.
Quando se ne andava la sera, pieno di vino e di umori, era accompagnato da un coro sommesso che a tutta prima sembrava un saluto reverente ma che, a saper leggere sulle labbra, si rivelava un coro di imprecazioni e di maledizioni.
-Ti vada di traverso quello che hai ingozzato, brutto avaro-
Questo gli dicevano a mezza bocca quei contadini ignoranti che si inchinavano al suo passaggio e gli annuivano quasi benedicenti.
E don Annibale lo sapeva bene.
E il vino allora gli andava di traverso per davvero.
Quelli credevano che era l’ultimo fesso sulla faccia della terra.
Ma lui c’era nato in campagna, sulla masseria di don Paolo, e certi trucchi li aveva visti fare già a suo padre, buonanima.
Così mezzo ebbro e con il sangue in rivolta se ne tornava alla canonica, dove poi Nunziata, la donna che veniva a fargli le pulizie, ne faceva le spese.
La prendeva con furia, piegandola sul tavolo rozzo della cucina, ributtandole in capo la sottana e, mentre ci dava dentro con impegno, continuava ancora ad imprecare contro quei cialtroni.

* *
Quell’anno era da poco terminata la guerra e gli uomini ritornavano dal fronte e dai campi di prigionia.
Era tornato anche il marito di Nunziata e girava per il paese, inquieto e solitario.
Si avvicinava la Pasqua.
Piscinacca, il sagrestano, glielo ripeteva ogni giorno a don Annibale:
Don Annì quest’anno la Pasqua dobbiamo celebrarla in modo speciale. E’ finita la guerra. La gente è come eccitata, vuole che le cose cambino.
E che deve cambiare da queste parti, povero scemo: il povero resta sempre povero ed il ricco resta sempre ricco.
I contadini vogliono le terre, don Annì!
Ebbene? Si piglino le terre del Comune, mica vorranno quelle della Chiesa!
E chi li capisce? Molti sono stati lontano tanto tempo e , adesso, quando parlano non li capisco più.
Il povero Piscinacca era storpio ad una gamba fin dalla nascita e a suo modo era fedele a quel prete al quale s’era attaccato fin dalla gioventù.
Erano invecchiati insieme. Lui sempre trattato come un cane, però lo aveva assistito in tante faccende, quel prete, anche nelle più sporche.
E’ vero Piscinacca la rivincita se la prendeva a modo suo.
A don Annibale gli pisciava ogni mattina nel vino della Messa.
Non tanto però, appena quel giusto!
E il prete s’era abituato talmente al sapore del miscuglio, che, una volta che Piscinacca si era alzato tardi e non aveva fatto in tempo, l’aveva rimproverato, trovando diverso il sapore del vino, accusandolo di aver fatto qualche intruglio.
Quell’anno a Piscinacca girava un’idea per la testa.
Don Annì, perché non organizziamo una processione vivente per la Pasqua? Con i paesani travestiti da soldati romani, facciamo una rappresentazione sacra come nel Medioevo. Eh? Che ne dite?
Sulle prime il prete ci aveva riso sopra, ma poi, ripensandoci, aveva trovato che l’idea non era tanto stupida.
Le bizzoche che venivano a confessarsi la mattina presto l’avevano trovata sensazionale, anzi tra loro già litigavano a chi dovesse fare la parte della Madonna o di S. Anna.
Indubbiamente la processione avrebbe attirato un sacco di gente, le osterie avrebbero avuto il loro guadagno e le offerte sarebbero state più generose.
Quel Piscinacca aveva avuto proprio una bella pensata!
Il paese fu in breve tutto rivoluzionato da questa iniziativa.
Bisognava preparare i vestiti dei soldati romani, con tanto di mantello rosso, di elmo e di spada.
E poi la scenografia.
E imparare le parti della Via Crucis, bisognava trovare i personaggi.
Un comandante dei legionari romani fu subito trovato in Gennaro, uno dei figli di un massaro di don Annibale, un giovanottone robusto e dai capelli ricci.
Pilato, Hannah e Caifa e i vecchi del sinedrio furono racimolati tra gli anziani del paese.
La stessa cosa per Maria, S. Anna e le altre donne che furono tutte reclutate tra le pie donne.
Per la Maddalena all’unanimità il paese scelse Nunziata, che aveva anche una bellissima e folta capigliatura nera.
Tutte le notizie venivano riportate da Piscinacca, sempre più eccitato, a don Annibale che non riusciva neanche lui a nascondere un certo interesse per tutta la faccenda.
Don Annì, non riusciamo a trovare la persona adatta per rappresentare Cristo, se ne uscì una volta il sagrestano.
E, giorno dopo giorno, riferiva al prete che la difficoltà a reperire un Cristo all’altezza del compito era enorme.
E senza Cristo tutto era inutile, era lui il personaggio principale.
Ci voleva un uomo alto, robusto e di bella presenza.
Doveva trascinarsi addosso una croce per tutto il tratto in salita che portava alla collinetta che si ergeva proprio dietro il paese e, vestito solo di uno straccio attorno ai fianchi, e quell’anno faceva anche freddo.
E dove trovarlo questo Cristo, con tutti questi uomini tornati dalla guerra che sembravano tanti scheletri.
E l’avevano vinta, figurarsi se l’avessero perduta!
Don Annì. se ne uscì un mattino Piscinacca, mentre aiutava il prete ad indossare la pianeta in sacrestia, Perché non lo fate voi?
Chi?
Gesù! Voi avete la figura adatta, un bell’uomo forte come voi. Che bel Cristo che sareste!
Ma sei pazzo del tutto? Rispose il prete, infastidito, aggiustandosi addosso la sottana e dirigendosi verso l’altare.
Ci manca pure che mi metto a fare il pagliaccio, pensava, mentre recitava il formulario latino della Messa.
Ma Piscinacca, imperterrito, tutto il giorno ed il giorno dopo ancora, gli ripeteva l’invito, insinuando nella mente del prete l’immagine della rappresentazione, con lui, Gesù, protagonista, primo attore, con una folla plaudente.
E chissà come sarebbe piaciuto quel suo corpo ancora asciutto e muscoloso e quanti pensieri avrebbero fatto le donne del paese a vederlo.
E tanto fece e tanto disse che don Annibale cominciò a vacillare.
Cominciò con l’opporre qualche ma alle argomentazioni del furbo sagrestano, ma quello aggirava ogni ostacolo, superava ogni opposizione, presentava la cosa sotto gli aspetti più accattivanti, finché don Annibale, ormai convinto da tempo, disse di sì.
Finalmente.
Trovato il protagonista, si poteva dare inizio alle prove che furono lunghe ed estenuanti, perché don Annibale volle rispettata in pieno la lezione dei Vangeli.

* *
Quell’anno il mese di Aprile fu veramente rigido.
Sembrava ancora inverno.
Don Annibale si era alzato tardi quel mattino.
La notte aveva dormito male, s’era girato e rigirato nel letto e solo verso l’alba era caduto in un sonno pieno di strani pensieri e poco ristoratore.
A Piscinacca che era andato a svegliarlo aveva confessato di essere preoccupato per la storia del pomeriggio, chissà se aveva fatto bene ad accettare, era un sacerdote, lui.
Ma che dite, don Annì! Forse avete mangiato troppo ieri sera. Ve lo dico sempre che la menestrella vi fa male. Avete fatto pure voi come il principe di Condè, ve lo ricordate, quello dei Promessi sposi?
Sarà! Rispose il prete alzandosi ma non si sentiva risollevato dalla spiegazione fisiologica del sagrestano.
Per tutta la mattinata se ne rimase in casa, ciondolando qua e là, assorbendo tutta la sua attenzione in mille piccoli particolari senza interesse, vecchi conti, fatture scadute, sfogliando qualche libro, preso da una scansia e riposto subito dopo.
All’ora del pranzo il solito Piscinacca gli diede la bella notizia che Nunziata non era venuta.
Si stava preparando alla recita anche lei.
E poi, scusate, non è meglio digiunare, pensando un po’ alla parte che dovete rappresentare?
Non hai tutti i torti, fece il prete, ricordando le sue raccomandazioni di rispettare la vigilia.
Vorrà dire che stasera, mi preparerai tu una bella cena sostanziosa, per riprendermi dal freddo che devo affrontare.

* *
L’appuntamento era stato fissato attorno alle tre del pomeriggio.
Questa era stata l’unica stonatura, ma era stato necessario qualche ritocco al Vangelo, per far svolgere tutta la rappresentazione in un tempo non eccessivamente lungo.
Don Annibale, ricoperto da una bella veste, fu dapprima portato davanti al Sinedrio e poi da Pilato.
C’era veramente tutto il paese ed un sacco di gente era venuta anche dai paesi vicini.
Don Annibale cominciava a pensare che aveva fatto veramente bene ad assecondare la pensata di Piscinacca.
Cominciava a rinfrancarsi finalmente dalle perplessità notturne.
Dopo la rinuncia di Pilato, don Annibale fu condotto alla colonna.
Qui fu denudato ed assaggiò una decina di frustate.
Veramente Gennaro ci aveva messo un po’ di foga in quelle frustate.
Don Annibale le aveva sentite eccome e ne portava anche i segni sulla schiena.
Quel cretino fa sul serio, disse a Piscinacca che stava sempre vicino a lui, dovendo rappresentare Giuseppe d’Arimatea.
Non fateci caso, don Annì! Fanno bene per il freddo. Tenete, fatevi un goccio adesso, che fuori si gela davvero.
Venne il momento della croce.
Don Annì, scusate, disse il falegname del paese, uno dei tanti che ricorrevano per un prestito al prete. Non ho trovato legno di abete.
Dicendo questo fece calare la croce sulle spalle del prete.
Era fatta con un bel tronco di quercia.
A don Animale tremarono le gambe, ricevendo il peso.
Ma che siete pazzi? Io non ce la faccio a portare questo affare fin sopra la collina.
Mentre rivolgeva queste parole al falegname ed ai suoi aiutanti, fu raggiunto sul dorso da una frustata terribile.
Il prete sobbalzò e lasciò sfuggire un gemito.
Forza, don Annì! Fatevi forza e camminate, gli disse Piscinacca. Ormai siete in ballo e la rappresentazione dovete farla.
Il prete mosse il primo passo tra due ali di folla vociante.
Mosse il secondo passo.
Largo. Fate largo. Gridavano i soldati che gli si misero a fianco.
Lentamente la processione prese la via del Golgota.
Innanzi venivano i soldati romani, soltanto preceduti da due carabinieri in alta uniforme, mandati dal centro cittadino e che si pavoneggiavano ignari con il loro pennacchio.
Poi i condannati, tra due ali di legionari, dietro le donne con Maria Maddalena un po’ discosta e con lo sguardo basso.
A morte. Portatelo a morte! Gridava la folla inferocita.
Don Annibale guardava quelle facce di contadini e si meravigliava di come si fossero calati nella storia che rappresentavano.
Era assorto in questo pensiero, quando sentì arrivare sul dorso una nuova terribile frustata che lo fece cadere in ginocchio.
Qualcuno lo aiutò a rialzarsi.
Il prete si era arrabbiato adesso, voleva piantare tutto ed andarsene a casa, erano veramente pazzi se credevano di continuare in questo modo.
Don Annì oggi dovete farlo veramente il calvario. Lo avvertì allora minacciosamente Gennaro, tirandogli una nuova frustata.
Questa è per la vostra solerzia nel dividere il raccolto.
La folla quasi fosse avvertita cominciò ad urlare contro il prete.
Impiccatelo davvero questo strozzino.
Giuseppe d’Arimatea si avvicinò al prete, asciugandogli la faccia con un panno.
Don Annì, questi sono impazziti, andate avanti, non provocateli.
Il prete faticosamente riprese il cammino in salita.
Una donna uscì dalla folla e gli sputò in faccia.
Mentre si asciugava col dorso della mano, la riconobbe.
Era Menica, una vedova, che aveva cacciato dal fondo che teneva in fitto, quando le era morto il marito in guerra.
Una nuova frustata lo raggiunse.
I carabinieri erano lontani e non avevano capito nulla di quanto stava veramente accadendo.
Doveva andare fino in fondo.
Allontana da me questo calice, Signore!
Perché gli vennero in mente ed alle labbra queste parole, proprio allora?
La salita era faticosa e la croce era pesante e ad ogni passo diventava sempre più pesante.
Sudava abbondantemente adesso, nonostante il freddo intenso.
Ma gliela farò pagare a questi bifolchi.
Pensò per un attimo, ma fu un attimo, perché subito dopo, come in un film, gli passò dinanzi agli occhi la vita che aveva condotto in tutti quegli anni.
Me la stanno facendo pagare a me, questa vita.
Una pietra bella grossa lo colpì in piena fronte, facendogli schizzare sangue sul selciato.
Don Annibale cadde una seconda volta, la vista gli si era annebbiata.
Il sangue colava abbondantemente dalla ferita.
Fu soccorso, una vecchia gli diede da bere, un uomo, che gli sembrò ancora Piscinacca, mortificato, gli tamponò la ferita.
Tutta colpa di quel cretino.
Ma dovette rimettersi in piedi e camminare, sospinto dalla folla e dalle frustate.
Era in vista della cima della collina, ormai.
Ma non ce la faceva più, il cuore sembrava scoppiargli in petto.
Don Annibale crollò sotto la croce per la terza volta.
Una frustata lo raggiunse sulla schiena, una nuova frustata, ma niente, stavolta il prete non ce la faceva a rialzarsi.
Un uomo uscì dalla folla e si avvicinò al prete, come per aiutarlo.
Era il marito di Nunziata.
Il prete alzò lo sguardo e lo fissò in volto.
Questa è per Nunziata, disse l’uomo.
Estrasse dalla tasca del cappotto militare che indossava una piccola roncola affilata e calò un terribile fendente, recidendogli la carotide alla gola.
Don Annibale reclinò il capo senza un grido, rimanendo così in ginocchio sotto la croce.





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