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Profilo della poetessa Silvia Comoglio

Argomento: Letteratura

di Marco Furia
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Pubblicato il 01/03/2015 23:05:03

Fotografia di S. Vitali reperita su http://ingransegreto.com/ 

 

 

Il sogno di una carezza linguistica pervade l’opera di Silvia Comoglio che, dopo “Ervinca” (2003), “Canti onirici” (2009), “Bubo bubo” (2010) e “Silhouette” (2013), ha pubblicato, nel 2014, “Via crucis”.

Il sogno di una carezza linguistica, appunto, ossia una tendenza delicata e affettuosa che della lingua accetta tanto il costrutto quanto l’immediato gesto e del sogno l’affiorare d’immagini affascinanti e non gratuite.

Silvia attraversa la lingua che vive e, si potrebbe dire capovolgendo i termini, vive la lingua che attraversa, poiché il suo canto è innanzi tutto arpeggio che dell’urgenza espressiva conserva il modo, ossia il progredire quasi per necessità da una pronuncia all’altra, senza dimenticare, tuttavia, l’importanza di insistere su particolari anche minuti.

La poetessa non si risparmia, insiste con assidua tenacia senza mai cedere alle fallaci lusinghe dello stile fine a se stesso, ponendo in essere, così, una versificazione che, proprio per la sua estrema scrupolosità, raggiunge esiti definibili quali disarmanti.

Dinanzi alle pronunce di Silvia è molto difficile (a mio avviso, impossibile) assumere atteggiamenti difensivi, poiché il duro e caparbio lavoro sull’idioma ha raggiunto livelli talmente alti (e, vorrei dire, completi) da promuovere un dire originale eppure non privo di affettuosa familiarità.

La poetessa non si nasconde dietro le parole, preferendo mostrarsi nella consapevolezza che il suo esempio potrà essere seguito: seguito nel commercio linguistico quotidiano come nella pratica della poesia e, in generale, nel divenire dell’esistenza di ciascuno e di tutti, poiché la sincerità è auspicabile in ogni circostanza.

Occorre, davvero, stare nella lingua.

L’autrice non soltanto abita il proprio linguaggio, di più, il suo intento è quello di promuoverne ulteriori sviluppi.

Come una musica che non conosce fine, il dettato di Silvia riprende il discorso a ogni nuova raccolta, a ogni nuovo componimento, a ogni nuovo verso e, perché no, a ogni nuova parola: siamo al cospetto di un impulso che, pur potendo concedersi soste, è in grado di riprendere, rinnovato, in qualsiasi momento.

Ho detto “in qualsiasi momento”, perché si è portati a immaginare che la poetessa potrebbe in ogni istante ricominciare, disponendo di un intenso campo di energia.

Il pericolo di cadere in eccessivi toni espressionisti è evitato da una vigile tenacia: l’espressionismo c’è ma è composto o, meglio, è concentrato nelle parole di un peculiare idioma poetico in grado di comunicare e, nello stesso tempo, di chiamare dentro.

I versi di Silvia, pur rivolti verso l’esterno, possiedono una vivida valenza interna che li rende liberi di muoversi da un àmbito all’altro, mostrando dell’intimità gli aspetti esteriori e dell’esteriorità i lineamenti più intimi.

Di fronte a simile non rigida determinazione, il lettore è, a sua volta, indotto a riflettere liberamente, trovandosi coinvolto in una sorta di complicità non inflessibile.

Siamo noi, alla fine, a riempire con i nostri pensieri una poesia infinitamente disponibile, aperta.

La vera poesia è un invito a parlare, non è certo una prigione linguistica da cui evadere.

Ci scopriamo, così, a frequentare un luogo le cui (non incerte) dimensioni consentono ampio movimento, poiché l’offerta poetica non esaurisce mai la sua vena.

Occorre non avere paura.

Ecco che cosa manca in questa poesia: la paura.

Ciò che c’è è sempre abbastanza anche se può essere accresciuto ed è sempre degno di apprezzamento anche se può essere migliorato: è questo il fiducioso messaggio che Silvia invia a tutti.

La fiducia dell’autrice può essere la fiducia di tutti.

Ecco, allora, che quel “sogno di una carezza linguistica” di cui parlavo all’inizio tende a spogliarsi dei suoi connotati onirici e a emergere quale aspetto reale.

La lingua della poetessa ha attraversato vasti territori assorbendo molteplici lineamenti e fisionomie senza mai perdere la propria individualità di parola rivolta alla comunicazione.

Il poeta non è un mago capace di portare alla luce straordinarie entità, è, piuttosto, un attento osservatore, un distillatore del quotidiano: la sua lingua, perciò, sebbene diversa, non è mai estranea, poiché mostra, in maniera molto penetrante, ciò che sta sotto gli occhi di tutti.

Dopo aver letto i versi di Silvia, così, ci riconosciamo, ci rendiamo conto di far parte di un universo ben più grande e articolato di quanto eravamo disposti ad ammettere.

Il nuovo, insomma, non è ciò che non c’era, bensì, in qualche modo, ciò che c’era già, se è vero che il possibile non è rigorosamente distinto dal dato di fatto.

Lungi dal costituire una fuga dal reale, la poesia è, dunque, un addentrarsi nel reale medesimo, un interrogare quest’ultimo al fine di rendere più ampia la propria conoscenza: tutto il lavoro della nostra autrice si svolge all’insegna di questa continua (proficua) indagine.

Un’indagine che non procede ponendo schematiche domande, ma per via di un’assidua tendenza allusiva che si rivolge a un’illimitata ricchezza dell’essere avvertita quale entità per nulla immaginaria.

Nell’affacciarsi sul mondo, Silvia avverte, nello stesso tempo, sensazioni di piacere e di turbamento, di gioia e d’inquietudine: siamo al cospetto, nel suo caso, di una scrittura consapevole del fatto che il comporre versi comporta sempre un arduo impegno.

La poetessa evoca qualcosa di molto specifico ma di non ignoto: da qui la riconoscibilità di testi capaci di sorprendere risultando, come dicevo, familiari.

Familiari in virtù di parole precise ma non ricercate e, soprattutto, in virtù di un tono che promuove la confidenza, chiamando il lettore, chiedendo il suo partecipe ascolto.

Per conoscere occorre, innanzi tutto, imparare a conoscere e, dunque, riuscire ad assumere nei confronti del mondo e di noi stessi atteggiamenti di affettiva attenzione.

Un desiderio di rinnovata integrità muove questa poesia: un’intensa aspirazione si rivolge a qualcosa in parte già posseduto, non del tutto estraneo, ossia a qualcosa reso disponibile dai pensieri, dalle azioni, dalle emozioni, dai sentimenti.

Silvia è ben conscia di tutto ciò, come mostra la tensione implicita in ogni vocabolo, in ogni segno d’interpunzione, in ogni minimo spazio bianco.

L’immensità non è estranea all’uomo ed è precipuo compito dell’artista ricordarlo: i territori aperti dalla poesia (e non soltanto da quest’ultima) consentono a ciascuno d’impegnarsi a far emergere qualcosa di buono in più.

Occorre mantenere il giusto equilibrio tra la dimensione individuale e quella collettiva, in maniera tale da aprirsi al mondo facendo propria quell’attiva contemplazione capace di consentire al linguaggio di essere attento quanto ricco di affettività.

Lasciarsi sorprendere per meglio conoscere: questo mi pare il tema di una poesia che non sacrifica mai alla sua pur feconda originalità una vigile passione.

Concludo citando alcuni versi, tratti dalla breve raccolta “Via crucis”, in cui, a mio avviso, emerge una tenace persistenza idiomatica che in un’assidua e alacre delicatezza trova il suo artistico valore narrativo:

 

“estreme lingue di covoni, pércettibili a bagliori

continui e silenziosi, echi, mossi trasparenti,

nell’eterna ondulazione di aurore a Sempre cadenzate

su un campo che increspa infine a lepre ‒

aspersa e luccicante –”.

 


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