Pubblicato il 02/06/2008
Bussò alla porta un po’ impacciato: l’idea di soggiornare nella casa di una donna lo imbarazzava non poco. Ma tant’era. In città non c’era una sola stanza libera: in quegli ultimi giorni d’estate si erano concentrati almeno cinque diversi grandi eventi. Si sentì ancora peggio quando ad aprirgli fu una ragazzina. “Sei arrivato" – gli disse allegra – "entra, fra un po’ pioverà”. “Oddio" - pensò, guardando il cielo limpidissimo che volgeva all’imbrunire – "un’adolescente e per giunta balorda”. Non si sentì meglio quando, dopo lo scatto della serratura, udì alle sue spalle almeno due tuoni in lontananza. La biondina, che lo guardava divertita, tentò di tranquillizzarlo dicendogli che lì da loro era normale: un minuto c’era il sole e un minuto dopo pioveva a dirotto. Ovviamente, ottenne l’effetto contrario, perché l’uomo si sentì ancora peggio di fronte alla sfrontata capacità di quella donna in miniatura di leggergli dentro! “Siediti" – disse – "adesso la mamma scende e ti mostra la tua camera. Sono contenta che tu sia qui. Lei non aveva mai affittato la stanza ad un uomo e mio padre diceva sempre che in una casa un uomo ci vuole perché le donne sono come i cavalli della fantasia e qualche volta hanno bisogno di briglie”. La domanda gli uscì dalla bocca prima che la dovuta sensibilità potesse bloccarla: “Tuo padre è morto da molto?” e mentre lo diceva già malediceva la sua stupidità. La ragazzina rise di gusto. “Non è morto: semplicemente a smesso di vivere qui e viaggia. Ogni mese mi manda una lettera ed un oggetto diverso. Poi, te li farò vedere”. Finalmente, a toglierlo da quella situazione incresciosa e un po’ grottesca, scese dalle scale la madre. Un altro colpo per la sua sicurezza: si aspettava una casalinga di mezza età che nulla aveva a che vedere con quella limpida e armoniosa nuvola bionda e violetta che si avvicinava a lui più minacciosa del temporale che, nel frattempo, si era scatenato fuori. “Lei deve essere Gabriele. Sono Erica, senza il K mi raccomando, non mi piace la lettera K: ha un non so ché di sinistro, di violento. Lei è Viola, mia figlia, ma l’avrà già conosciuta”. “Sì, ma ancora non c’eravamo presentati”. La donna rise: “Con Viola è sempre così, ti aggredisce senza darti il tempo di guardarti intorno. Venga, le mostro la sua stanza”. La camera era come il poco della casa che era riuscito a vedere: luminosa, colorata, con un mobilio semplice vagamente etnico ed impregnata da un gradevole ma sobrio profumo di fiori e agrumi. “Ti piace?” Erica era passata con naturalezza dal lei al tu come se il solo fatto di essere entrati nella parte più intima dell’abitazione avesse favorito l’instaurarsi di una sorta di confidenza. “Sì, mi piace” rispose lui. “Allora ti lascio. Si cena alle otto. Ti aspettiamo giù”. Cominciò a riporre le sue cose, trovando con estrema facilità tutti gli spazi necessari, come se avesse già vissuto in quel posto e, mentre lo faceva, si sentiva pervaso da un senso di serenità: quel soggiorno sarebbe stato buono. Si accorse che era ormai tempo di scendere: trovò Erica e Viola intente ad apparecchiare. La ragazza, come lo vide, corse a rovistare in un armadio e ne trasse una candela. “Ne accenderò per te una diversa ogni sera ed, alla fine, mi dirai quale ti è piaciuta di più. Accese il coloratissimo cilindro e subito si sprigionò nell’aria una fragranza di cannella e cedro. Gabriele si meravigliò quando, assaggiato il pollo che Erica aveva preparato, notò che il sapore di quel piatto si accordava perfettamente con l’effluvio emanato dalla cera che andava sciogliendosi, colorando l’aria di piccoli bagliori arancio ed oro. Durante la cena poté osservare con attenzione la sua ospite: era difficile indovinarne l’età. Solo delle piccole rughe agli angoli dei grandi occhi e ai lati della bocca, facevano pensare che non fosse più giovane come, ad un primo sguardo, sarebbe potuta apparire. Per il resto era perfetta: né brutta né bella ma tremendamente seduttiva nella sua assoluta incoscienza dell’effetto che poteva provocare in chi la guardava. Continuava con naturalezza ad assaporare il cibo che portava alla bocca con snervante lentezza, assolutamente incurante del fatto che i piatti della figlia e di Gabriele fossero già vuoti. Lui cominciò ad estraniarsi, pensando a cosa lo aspettava il mattino seguente. Un posto di lavoro nella redazione di un giornale con un’antica tradizione. Nuovo incarico, nuovi colleghi, nuove responsabilità ed in una città così diversa dalla Capitale, dalla sua Roma. Erica ruppe il silenzio: “Le novità emozionano ma portano sempre qualcosa di bello. L’emozione è già qualcosa di bello. Cambiare dovrebbe essere prescritto a tutti come una cura preventiva contro la morte!” Era un vizio di famiglia leggergli nel pensiero! Dove era capitato? In una puntata di “Streghe”? Eppure rispose con schiettezza: “Sono abituato ai cambiamenti ma è come se sentissi che in questa nuova esperienza ci sia un che di determinante, definitivo”. “Un attimo può essere definitivo, una frazione di secondo determinante e, nello stesso tempo, tutto ciò che li ha preceduti e seguiti, essere caduco ed inutile. L’eternità esiste ma non risiede nel quotidiano”. Aveva pronunciato quelle parole simili ad un postulato di filosofia con la semplicità e la leggerezza di chi, pur avendo imparato molto, non vuole insegnare nulla. Gabriele la guardò con gratitudine. Poi, accadde di nuovo. “Perché non ci suoni qualcosa?” disse Viola che già era accanto al vecchio piano che si trovava sulla parete di fondo della piccola sala da pranzo. Di fronte ai suoi occhi sbarrati, le due femmine si guardarono, un po’ complici e la madre disse: “Le tue mani, Gabriele. Viola ha visto le tue mani.”. I suoi occhi si spostarono immediatamente sulle dita affusolate, curate, su quelle mani un po’ muliebri eppure nervose. Si avvicino a Viola, sedette, accarezzo la tastiera, provò il tono dei tasti: lo strumento era perfettamente accordato. “Chi di voi suona?” – “Nessuno! Vogliamo che la sua voce rimanga intatta… non si sa mai. Inoltre, bisogna rispettare la buona natura delle cose”. Ancora la saggezza di Erica. Suonò, a lungo, con passione e, a poco a poco, tutta la tensione svanì. Andarono a riposare. Il mattino seguente mentre faceva colazione in cucina, accanto ad Erica, Viola entrò agitatissima: “Mamma, mamma, presto o morirà!” Teneva tra le mani un tremante fagottino di piumette arruffate, come batuffoli d’ovatta sporchi: un uccellino caduto da qualche nido. La madre si avvicinò, prese con delicatezza e fermezza il piccoletto e, con voce decisa, ordinò a Viola: “Presto, vai nel frigorifero in cantina e prendi qualcuno di quei vermi che usi quando vai al fiume a pescare!”. Tornò in un lampo ed Erica prese dal brulicante groviglio che portava un verme poi fece una cosa repellente: se lo mise in bocca stringendolo lievemente fra le labbra mentre si contorceva ancora. Avvicinò la sua bocca al becco dell’uccellino che si schiuse: rapida vi lasciò cadere dentro il bigattino. Ripeté l’operazione due tre volte. “Credo sia abbastanza: ora prendilo e mettilo in una scatola che avrai imbottito di bambagia e fili d’erba. Fra due ore lo nutriremo di nuovo. Gabriele, nonostante la nausea lo avesse costretto a rimandare giù la colazione che non ne voleva più sapere di restare nello stomaco, era raggiante di fronte a quel miracolo della vita ed alla musica perfetta che il disperato pigolio dell’animaletto tracciava nell’aria. Durante tutta la giornata, ogni volta che si sentiva in difficoltà, gli ricompariva davanti agli occhi la scena del mattino e si sentiva subito più forte, sazio, come protetto da un’invisibile forza cosmica che lo accomunava con tutte le creature. La sera si ritrovarono di nuovo per mangiare insieme ed il rito di Viola si ripeté. Quale candela avrebbe scelto questa volta? Il profumo che invase le sue nari era di miele e muschio: non avrebbe mai detto che una fragranza tanto dolce potesse armonizzarsi con l’afrore di un cervo in calore. Dopo il pasto parlarono a lungo, fino a che la candela non si fu consumata. Continuò così per quasi un mese: ogni giorno una vittoria, ogni sera una candela profumata. Poi venne il momento: l’agenzia alla quale aveva dato incarico di trovare un appartamento lo chiamò. Aveva visto tante case ma aveva sempre trovato un difetto in ognuna: troppo piccola, troppo grande, troppo centrale, troppo periferica, troppo buia… ma quella di quel pomeriggio era perfetta. Tutto rispondeva a ciò che aveva sempre voluto ed aveva persino un piccolo e curatissimo giardino. Dalla veranda si vedeva scorrere il fiume eppure era a pochi chilometri dal centro della città. Così si ricordò di quando Erica aveva fatto volar via il piccolo merlo, oramai guarito e cresciuto, pronto a spiccare il volo. Firmò il contratto. A cena erano tutti un po’ più silenziosi. Viola accese una candela: incenso, il profumo delle iniziazioni. Così, a bassa voce, comunicò loro che l’indomani si sarebbe trasferito. Erica portò una torta di mele appena sformata e del vino rosso, frizzante e dolce. Non avevano mai mangiato dolci in quel mese. Festeggiarono l’evento, suonarono il piano e, poi, andarono a dormire sereni. Il mattino seguente Gabriele, con le mani di Erica fra le sue, le disse: “Ma chi sei? Posso parlare ad una donna come fosse un uomo, uno sciamano e un insetto pungente?” La donna lo guardò, gli accarezzo una guancia e gli sorrise, ma non rispose. Viola gli si fece accanto e gli consegnò una candela: “Erica e violetta: è il suo profumo”. La porta si chiuse alle sue spalle: l’estate era finita, il vento portava già il rosso delle foglie di platano e l’odore di terra bagnata. Una nuova stagione iniziava.
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