Intenso testo, lucido, ben iscritto nel dettato di un moderno che confonde, stride, disperde tra le maglie delle sue illusioni e delle sue negazioni questa quarta prova poetica del giornalista Giovanni Bracco. E finalmente, diremmo tra tanta, troppa poesia aggrappata all’autoreferenzialità della sua lingua, entro una parola chiara, esatta, a tratti asciutta, ma sempre penetrante tra le aspirazioni e le spine di una realtà alla prova delle sue cronache, e delle sue demolizioni. Un notturno allora dal titolo a dire le oscurità ma anche le sospensioni di un umano provato, sofferto, avvinto tra desideri di respiro e piccole, quotidiane evocazioni tra cielo e terra, tra sé e il suo mistero più grande e sciagurate indifferenze, malie di rigetto a quell’altra parte battuta, vinta, respinta, apolide a se stessa e agli altri in quel sistema sociale, economico ma anche culturale in cui sempre gli ultimi restano gli ultimi. Così il testo è possibile dividerlo in due parti, la prima nelle due sezioni di “Souls at night” nell’evocazione nello sguardo al cielo, alle sue stelle, ai suoi rivoli di luce nel bagno quasi leopardiano, antico di nostalgica interrogazione, e di “Birds” nella familiarità di esseri cui è riservata tutta la prossimità di una condizione di finitudine, e di stallo e di “The dark night of the souls-Mediterranean, migrants” (dal libro precedente, “Il mare mi ha deposto dalla croce”), in cui Bracco immagina di dar voce “agli sventurati” di quella infinita tragedia che ha nome di Mediterraneo, nel cimitero immenso di chi cercando approdo per una vita migliore trova respingimento se non soventemente la morte. Notturno allora come anche la notte di una coscienza che si infinge da una parte e quella dall’altra di chi si prova, di chi non ha più dove andare o dove tornare in una distesa di separazione entro una vuota arca priva di alleanze perché priva di riconoscimenti, e di identità allora in quella carta di diritti, di partecipata umana e politica presenza, in cui ogni scrittura è atta se non nella sua negazione, e nella sua ipocrita, vile e addormentata, a proposito di notte, impotenza. Perché il discorso di Bracco, l’intelligenza del cronista riportata nella sapienza dell’autore, è iscritto all’interno di una identità più vasta la cui affermazione, di vita certo nei fattivi intrecci delle sue diversità e dei suoi orizzonti, vale l’affermazione di un umano tout court altrimenti scoperto alla propria mistificante incoscienza (priva di interrogazione), al blandire a perdersi dei suoi demoni. Un discorso allora riportato in tutta l’urgenza di uno specchio in cui ogni figura in quanto sovrapposta, confusa nello stordimento dell’uscita è figura dell’altro nel buio di un insieme il cui limite non è separabile nell’unità di una pronuncia che già nel dire, nel dirsi può avere in sé un’uscita. Non vogliamo suggerire di più pertanto lasciando al lettore il confronto con uomini cui Bracco non cadendo mai nel tranello della banalità e della retorica concede nello spazio di pochi versi il respiro primo e ultimo di una esistenza che dice anche noi nella misura di una creaturale volontà ad esserci e a rispondere che forse di qua si va dimenticando. Solo riportare dal cuore di una Roma ferita ma presente la sostanza di una incarnata corporeità di futuro espansa come da un piccolo, vivace laboratorio nello studio di un pediatra a Piazza Vittorio in tutti quei bambini provenienti dalle parti più disparate del mondo, “figli radici/che dicono le voglie di restare”. Di qui forse nell’aria di ritornanti e risonanti composizioni di uomini e di terre tutta la vitalità di una speranza “che unisce e non divide” e l’augurio di una scrittura che sa riportando vedere e rimettere alla appassionata coincidenza dei suoi incontri. Augurio che è anche il nostro nella bontà di un testo riportato anche nella versione inglese di Federica Giovannelli.