Della tavola ouija lessi per la prima volta in un romanzo, forse di Irving, non ne sono sicuro. Mi venne da sorridere. Io la conoscevo come “il gioco del piattino” e da bambino ne avevo fatto uso insieme a qualche amichetto, per giocare appunto, probabilmente già diffidente circa la possibilità che l’ordinata sequenza dell’alfabeto, la serie di cifre del sistema di numerazione decimale (0-9) e l’aut out di una coppia di avverbi (sì-no) potessero fornire oracoli dall’aldilà. Ma c’è chi ci crede o ci ha creduto fin da epoche remote; poi, sul finire del XIX secolo, una coppia di americani ne lanciò la versione industriale, una specie di board game, che tuttora è commercializzata negli Stati Uniti.
Che ci giochino dei ragazzini in vena di strizza da suggestione, passi; ma che a giocarci siano dei distinti e stimati professori dell’Università di Bologna, nel corso di un intero pomeriggio (piovoso?), il 2 di aprile del 1978, sembra una barzelletta, benché i partecipanti alla seduta spiritica[1] fossero cattolici. Una persona di sana cultura, per credente che sia, al massimo si presta al gioco dell’oca per compiacere figli o nipotini.
Intanto la versione dei fatti, ben nota ai lettori dei quotidiani, non è stata mai sostanzialmente smentita dal giorno in cui Romano Prodi, futuro presidente del Consiglio, ne riferì ad Umberto Cavina, il portavoce dell’allora segretario della DC, Benigno Zaccagnini; Cavina, oggi defunto, passò la notizia a Luigi Zanda, che era a sua volta portavoce del ministro degli interni Francesco Cossiga.
Gli spiriti di don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira avrebbero suggerito il nome “Gradoli” come luogo della possibile prigione di Aldo Moro. Gradoli è sì un piccolo comune in provincia di Viterbo, ma anche di una strada di Roma. L’equivoco suona come un grattacapo, se non un diversivo.
Ripeto, l’intera vicenda e ciò che ne seguì sono fatti conosciuti. La domanda è: perché Antonio Iovane sente il bisogno di farne un romanzo? Sì, è proprio scritto così sulla copertina del libro: romanzo! Intanto perché dove non arriva l’investigatore istituzionale giunge lo scrittore, colmando i vuoti con l’immaginazione e le congetture. In secondo luogo, perché intende dirci qualcosa di fondamentale, qui ed ora, non strettamente connessa ai fatti di oltre quarant’anni fa. Intende dirci qualcosa intorno al concetto di verità, la quale, non esiste come fenomeno unico incontrovertibile e dunque non può essere singolare, ma necessariamente plurale. La scienza della verità, in altri termini, è scienza speculativa di mera inferenza. È probabilmente in tal senso che Pasolini poté affermare di sapere senza avere le prove. E quand’anche fosse stato un investigatore istituzionale, sarebbe giunto a conclusioni “istituzionali” secondo i vincoli procedurali riconosciuti dalla legge. Una sentenza passata in giudicato non è affatto la verità, ma solo una delle sue possibili versioni. Le altre versioni dei fatti sono tante quante sono le deduzioni alle quali giunge chiunque ne sia informato. Pirandellianamente: così è, se vi pare! Le sentenze definitive accertano l’esistenza del fatto, dei possibili attori e dei loro moventi. Uso la parola “attore” perché, in ogni caso, chi agisce, per quanto approdi a un crimine, recita su canovaccio. Tant’è che ci sono dei codici che prevedono la fattispecie del delitto, lo inquadrano, lo descrivono ancor prima che il crimine sia commesso. In altri termini, quando infrangiamo una legge, non siamo mai veramente originali, siamo piuttosto interpreti di un copione. Molti grandi artisti recitano Amleto, ma ognuno lo fa a modo suo. Dietro ogni maschera si cela un volto. Iovine, a mio avviso, mira al volto, sulle orme di uno scrittore che probabilmente legge e ammira, Leonardo Sciascia.
Lo scrittore agrigentino fu membro della “Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia” meglio nota come “Commissione Moro I”. Nella sua biografia leggi fedeltà e coerenza ai principi dell’Illuminismo che tanta parte hanno avuto nella formazione dei pochi intellettuali autenticamente laici del nostro paese. C’è Gobetti e i fratelli Rosselli, Salvemini e Ernesto Rossi, Pannunzio e, perché no, Pannella. Il quale lo volle candidato per il Partito Radicale alle elezioni del 1979. Come mai? Ne condivideva la visione della realtà, inglobava il sistema Sciascia nel programma politico del suo partito. La buona politica ascolta la voce della gente, tanto più se la voce proviene da uno che sa “cantare”, lo fa con cognizione di causa, mira alla qualità del dibattito politico, poco o nulla curando i giochi di potere. Il mandato parlamentare sarà, per Sciascia, un servizio reso alla collettività. Tale dovrebbe essere, ma ben pochi lo intendono così.
Come scrittore e studioso non aveva mai fatto mistero della sua sperticata diffidenza (forse disgusto) per Moro, che il regista Elio Petri volle interpretato da Gian Maria Volonté nel celebre film, Todo modo, liberamente tratto dall’omonimo libro pubblicato nel 1974. Volonté trasforma lo statista democristiano in un uomo mellifluo e dissimulatore tale da apparire come una specie Tartuffo molieriano. È il “gesuitismo” colpevole di un partito politico che regge le sorti del paese dall’immediato dopoguerra fino al suo dissolvimento negli anni Novanta del secolo scorso. La Democrazia Cristiana aveva nei geni la straordinaria capacità del compromesso e della mediazione, una roba che sa di colpevole ipocrisia finalizzata al mantenimento del potere. Tale appare ancora oggi, se è vero che con l’aggettivo democristiano viene puntualmente etichettato qualsiasi politico dai comportamenti ambigui e dal dire sfuggente. È del 2017 il film “Si muore tutti democristiani” che, riecheggiando un celebre titolo del quotidiano “il manifesto”, allude esattamente alla necessità del compromesso con la coscienza ai fini della sopravvivenza in questo nostro sciagurato paese.
Ma Moro viene barbaramente ucciso dalla Brigate Rosse. Cessa di essere un dirigente politico. Di lui resta la nuda umanità, la medesima che emerge dalle lettere che scrive nei cinquantacinque giorni di prigionia-agonia. Sono lettere dure e amare, ma anche umane. I suoi compagni di partito le dicono dettate dalla soggezione; non è così o non lo è in assoluto, non lo è per Sciascia, non lo è per Iovane, non lo è per me! La parola dello statista si fa mite o determinata, incisiva o malinconica a seconda delle circostanze, e diventa tenera e premurosa quando scrive alla moglie, Eleonora Chiavarelli (Nora, Noretta, gran donna, mi viene da dire, e compagna impareggiabile!), dolce e affettuosa quando si rivolge al diletto nipotino Luca, autodefinendosi nonnetto.
Dinanzi alla nuda umanità s’inchinano gli uomini di sane intenzioni. Chi volle morto Aldo Moro, figlio del medesimo tartufismo imputato ai democristiani, dello stesso “gesuitismo” del quale il cattolicesimo nostrano si è nutrito per secoli, indossava una maschera non diversa dai politici che intendeva combattere. La clandestinità implica giocare sporco: bravo ragazzo dinanzi agli occhi della gente, feroce assassino in privato. All’interno 11 del civico 96 di via Gradoli non abitava Mario Moretti, ma tal Mario Borghi, distinto ingegnere, educato, rispettoso. Ecco cos’è la clandestinità, tramare nell’ombra né più né meno come avevano fatto i servizi segreti deviati e settori delle forze armate già anni prima. Con quali aspettative? Gli uni ci avrebbero regalato un novello Stalin, gli altri un redivivo Mussolini. Bella prospettiva! Senza considerare che la geopolitica del tempo avrebbe allargato il conflitto tra bande armate italiane ben oltre i confini nazionali. Le tensioni della guerra fredda non erano ancora cessate. Il senso di quella frase attribuita a Leonardo Sciascia, ma mai da lui veramente pronunciata (Né con lo Stato, né con le Brigate rosse) andrebbe forse interpretata in questo modo: non mi piace la classe politica italiana, non mi piacciono le Brigate rosse. Il dissenso motivato non implica alcuna complicità. Con chi si schieravano Sciascia e altri come lui? Con chi si schiera, infine, Antonio Iovine? Ecco cosa scrisse Moro ad Andeotti:
«Si può essere grigi; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On. Andreotti, è proprio questo che Le manca […] Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po’ più, un po’ meno, ma passerà senza lasciare traccia».
Sembra Adelchi, al quale Manzoni fa dire, riferendosi a Carlo Magno vincitore: “Questo è un uom che morrà”. Sono certo che Sciascia approverebbe il parallelismo.
Le manca il fervore umano! Quello che lo stesso Iovane, personaggio narrante, mette nell’interrogare suo padre, quasi sconvolto dall’assurda vicenda della seduta spiritica di Zappolino, forse certo di non venirne mai a capo. La gente, afferma, la gente, cioè noi, era diversa! Il papà gli risponde:
«Lo scollamento tra la politica e la vita della gente comune che c’è da sempre, in questo Paese. Quelle lettere [di Moro, NdR] ci colpivano, perché la vita della gente è fatta di emozioni. È fatta di passioni. Volevamo che Moro fosse liberato, anche trattando. E i partiti erano invece così distanti…».
Lo sono ancora, ahinoi! Che ne sanno, i partiti, delle nostre vite, dei nostri sentimenti, dei nostri patimenti? Che gliene importa di noi?
Il romanzo di Antonio Iovine è più un viaggio nella nostra coscienza che una vera e propria investigazione. Ciascuno di noi è responsabile della sua versione dei fatti. La verità è fatta di ipotesi, di ragionamenti, di deduzioni, di quasi nessuna certezza. E di un unico raggio di sole che riscalda il nostro cuore.
[1] Antonio Iovane, La seduta spiritica, minumum fax edizioni, 2021