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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte22

di Stefano Saccinto
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Pubblicato il 30/11/2011 11:03:38



Pensai che avrei distrutto tutto e che mi sarei finalmente deciso a combattere quella assurda malattia mentale che faceva traboccare quantità enormi di parole vuote dalla mia mente, nel nevrotico contorcermi quotidiano senza un solo minuto di tregua e di rilassatezza. A volte, per spegnermi, avrebbero dovuto abbattermi. I miei miliardi di parole si sommavano storicamente alle montagne di libri che avevano resistito al tempo e che, dai passati immemori, erano riusciti a giungere fino a noi. Pianeti di libri, universi interi tappezzati da pagine scritte in una abominevole esplosione di messaggi e opinioni e storie e personaggi di cui non se ne poteva più. Basta. Di un altro scrittore si sarebbe potuto fare a meno e se potevo rendere questo servizio all’umanità, l’avrei reso senza fare troppe storie.
Mi laureai senza quasi accorgermene, mi rintanai in casa e mi convinsi che il mio unico posto era quello. Quasi tutti i miei amici diedero inizio all’ultima fase dell’abbandono che era cominciato quella sera sui gradini della strada male illuminata in cui ammazzammo tutti i nostri sogni sul futuro universitario insieme. Prima smisi di acquistare libri. Poi smisi definitivamente anche di leggere. Tutto quello che mi aveva spinto, millenni prima, a lanciarmi a volo d’angelo sulla superficie incerta del mare letterario, per imparare ad affrontare le paure, per sfidare la vita e per ricevere il segreto dagli dei, era ormai scomparso. O se ancora non lo era, stava per farlo inesorabilmente e senza alcuna pietà per le fondamenta instabili che avevano sorretto fino ad allora la mia esistenza.
Saper distinguere la verità dalla finzione è una delle competenze più incredibili che un uomo possa maturare. Il segreto è tutto nella linea di demarcazione e la linea è così sottile e così precisa che a pensarci vengono i brividi. La vita può trasformarsi in un’allucinazione protratta se ad essere falsa è qualche componente del mondo esterno. Ci si può lasciare ingannare da un acquisto che non sì è tecnicamente all’altezza per valutare e farsi fregare in maniera lieve. Ci si può fare ingannare da un falso comportamento di una persona e prendere una fregatura più grossa o farsi fregare da un atteggiamento corale o sociale. In questo caso la fregatura raggiunge già livelli eccellenti. Ma la fregatura più grossa che si può ricevere è l’inganno che uno può operare su se stesso. Un abbaglio di quelli mai visti, che può durare anni e, nel peggiore dei casi, anche una vita intera.
Quello che mi aveva permesso ogni volta di sopportare me stesso e i fastidi che mi procuravo era che avevo sempre saputo quello che andava fatto in qualsiasi momento della vita. Avevo avuto cosmi di dubbi e ripensamenti, ma, nel culmine del fermento delle idee, avevo tirato fuori ogni volta, in maniera quasi ascetica, una direzione. E l’avevo seguita. E le cose erano andate bene. I dubbi che si addensarono nella mia mente in quei mesi erano però dubbi orribili che mi occultarono definitivamente il futuro e mi portarono alla vista la mia vita completamente rovesciata: l’ipocrisia che esisteva nel vivere l’attimo presente era sconcertante, non comprendeva un passato e non permetteva un futuro. La presenza di chiunque sotto il mio naso divenne una presenza vaga, fatta di forme simili a fantasmi con cui si poteva interagire con l’unica possibilità di accedere a estasi di comunicazione che avevano una fase di eccitamento, di plateau, di orgasmo, per terminare poi nel lento rientro ad una ordinaria apatia. Non esisteva la possibilità di una comprensione totale e non esisteva la possibilità di una comprensione definitiva. Tutto andava ribadito ogni volta, ogni giorno, con estrema difficoltà comunicativa e armarsi sempre del proprio intero bagaglio di convinzioni sembrava umanamente impossibile. La mente degli uomini, una volta scalfita, riassorbiva la ferita e tornava a mostrarsi, insensibile nei tuoi riguardi, come l’avevi trovata, al punto che si finiva sempre ad avere gli stessi problemi con le stesse persone e questo non permetteva alla vita di proseguire. Se un tempo ero stato un allievo degli dei, se avevo studiato da loro il modo per ottenere lo slancio di progredire di un gradino ancora, verso una coscienza omnicomprensiva e per ottenere la forza di rendere possenti le braccia ed allargarle agli altri uomini per permettere loro di issarsi a guardare la vita da una nuova vetta, voleva dire che avevo perso il mio tempo. Non avevo imparato niente.
Cercai di ricominciare tutto concentrandomi solo sulle piccole soddisfazioni che la vita famigliare può dare. Andavo a fare la spesa con la ragazza che amavo troppo assai preoccupandomi per la prima volta delle cose che preferivo mangiare, mi divertivo a far rientrare il bilancio economizzando e accumulavo le piccole somme di denaro che ci avrebbero permesso di sopravvivere nei giorni in cui sarebbe mancato il lavoro. Le cene in famiglia erano davvero un bel momento. La bambina che si spremeva nel pannolino zittendosi improvvisamente mentre mangiavamo, mi riempiva di orgoglio. Defecava che era una bellezza, proprio come me. E poi vederla arrampicarsi ai divani e allungarti una mano, farla addormentare con le canzoni dei Radiohead, usarla come chitarra per le canzoni degli Oasis, morsicarle le chiappe e schiaffeggiarla per farla ridere, mi appagava della stancante monotonia dell'assenza di contesti letterari.
La vita aveva un sapore strano e momenti di vera serenità famigliare se ne vedevano pochi. A pranzo avevo sempre poco appetito, la sera quasi sempre cenavamo dai miei genitori o dai suoi. Non riuscivamo a sederci sul divano per goderci un film perché la ragazza che amavo troppo assai si addormentava e raramente andava a entrambi di uscire. Nei periodi invernali poi, con la bambina ancora piccola, non uscivamo mai. Io mi mettevo al freddo davanti al computer mentre lei la metteva a dormire e quasi sempre rimaneva a letto per evitare di dover accendere i termosifoni. Nelle nostre vite appariva un dislivello che le faceva sembrare due vite separate. Avevamo ritmi diversi, orari diversi, bisogni diversi, diversi interessi e diversi modi di affrontare le cose. Non si capiva come avessimo potuto vivere in simbiosi, un tempo. Per di più non riuscivamo per niente a capirci, su ogni questione. Lei cucinava come il cazzo. Se glielo dicevo la prendeva male, come era giusto che fosse. Ma se non le dicevo niente continuava a cucinare come il cazzo. Ogni situazione rappresentava un paradosso. Aveva maturato tutta una serie di superstizioni sessuali per cui si poteva ottenere soltanto un amplesso in posizione missionario con gemiti ridotti al volume zero. Non si poteva fare l’amore quando era sveglia la bambina, ma quando dormiva, doveva dormire anche lei per mantenere il ritmo. Se riuscivo a beccarla nei cinque minuti prima di addormentarsi non le andava di fare l’amore. Se tentavo di svegliarla durante il sonno mi faceva notare che stava dormendo. Cacciava via le mie mani e mi rimproverava proprio.
Che cazzo le avevo fatto? E che schifezza era mai quella? Mi aveva torturato l’esistenza prima di sposarci con questo maledetto sogno di vivere insieme e di dormire insieme. Ah, si trattava proprio di dormire. Doveva esserci stato un equivoco di fondo mai chiarito. Restavo a pensarci per nottate intere mentre mi morsicavo la mani nel disperato desiderio del suo corpo che strusciava contro le lenzuola accanto al mio. E la mente veniva devastata da estatiche visioni d’erotismo che mi facevano venir voglia di piangere e buttarmi giù dal balcone.

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