Entrando in questo romanzo ho avuto l’impressione di far parte del pool di Dom Cobb nel film “Inception”: di colpo, dal nulla, è sorta attorno a me, perfetta, viva e reale la città di Roma del 1866. In una delle descrizioni ci si presenta così: Ciò che le è propria è la calma insita in quella bellezza, la sensazione di riserbo che essa racchiude. E per essere così vivida davanti ai miei occhi lo deve essere altrettanto e anche molto di più nella mente e nella penna di Giovanni Baldaccini, raffinatissimo narratore: notte vaga tentoni, offusca strada. Nebbia leggera sfiora la finestra con striature d’ali iridescenti. Inciampare. Una frase che introduce l’atmosfera con coloriture poetiche, addirittura l’ultimo verbo dopo il punto evoca uno strappo da haiku. Dopo l’iniziale spaesamento comincio a muovermi nei vicoli e nelle strade della città, ma un senso di estraniamento mi assale, non sono assolutamente in grado di decifrare il linguaggio. Mi sento esattamente come l’illustre linguista Budai del noto romanzo “Epepe”. Ciò che mi serve è una chiave per decifrare il meta-linguaggio che scorre dietro le righe di quanto narrato. Il periodo è preciso, non ci si può abbandonare a fantasticherie, è il periodo della battaglia di Mentana, l’Unità d’Italia sta per essere completata, manca solo lo Stato Pontificio, assediato. Ecco l’assedio, mi dico, è da questa parola che inizio a capire quel che succede. Sapere che il mondo che si conosce, quel che si sente proprio, entro il quale la mente e il cuore trovano rifugio, è posto sotto assedio, e tramite il quale, vittorioso o fallimentare, nulla sarà come prima. La battaglia di Mentana, come è noto, non impensierì più di tanto lo Stato Pontificio, ma, come dicevo, il tempo aveva iniziato a ticchettare in modo più forte, quasi assordante. I piemontesi prima o poi arriveranno, come fermare il tempo per evitare che il mondo che si conosce vada in brandelli, chi lo può modificare se non un orologiaio? E l’orologiaio si chiama proprio Giovanni, come l’autore, a lui è demandato il governo del tempo. Cosa che sanno perfettamente le anime, che affollano la bottega degli orologi, se il tempo si può aggiustare, anche le anime si possono riparare. Il vociare delle anime è assordante in bottega e Giovanni non si può assentare, le deve custodire, deve far ticchettare all’unisono orologi e anime, cuore e ricordi. Ma qualcosa va storto, ineluttabilmente gli orologi si mettono a retrocedere, inarrestabili, e l’orologiaio è costretto a distruggerli: il tempo fa il suo corso, non si può né arrestare né mandare avanti, e di conseguenza nemmeno all’indietro. La distruzione degli orologi fa scomparire le ombre e accelera il processo di decadimento che via via si faceva strada tra le righe del romanzo. Ormai Roma è diventata la capitale dei piemontesi, il Papa non dice più nulla, la nobiltà tenta di accaparrarsi un posto in vista e i poveri tentano di speculare. Una sorta di saccheggio di fronte al quale si ammutolisce, e vivono ombre e incubi.
Credo che la bellissima narrazione, storicamente perfetta e puntualissima sulla descrizione dei luoghi, ci parli di una forte nostalgia verso il tempo che se ne va, un atto d’amore per qualcosa che inesorabilmente è cambiato, e non in meglio. Un canto struggente che su note leggiadre e poetiche parla direttamente al cuore di chi legge e vi trasmette la nostalgia e il rimpianto per ciò che se n’è andato, o sta per farlo, portandosi via un mondo in cui convivevano speranze e illusioni, fantasia e fede. Allargando lo sguardo si potrebbe anche individuare il senso di sfacelo che attanaglia la nostra società, la rincorsa per un cambiamento continuo e incessante che però non è detto sia un miglioramento. Forse anche la situazione politica che sta vivendo la città di Roma è compresa in questa nostalgia, un cambiamento politico che tanti attendevano e speravano che alla fin fine, a ben guardare, altro non è se non la distruzione della città. Vi sono alcuni passaggi emblematici di quanto ho tentato di riassumere nella mia goffa topografia dei sentimenti di questo libro, ad esempio: Quando torniamo imprimi i paesaggi nella testa; la gente, la campagna, le aquile del cielo. Impara le canzoni dei pastori. Tramandale, se puoi: scomparirà tutto. Guardando fuori: prime ombre dall’alto. Nella disperazione il testimone comunque non deve andare perso: tramanda un messaggio per il lettore, forse.
E nella nostalgia di una città che si disgrega, di tempi che si fanno peggiori, nel clima di perdita che incombe si fa strada anche l’idea dell’amore e della persona amata, che a tratti sembra sovrapporsi alla città e alla storia. E in fondo una persona che si ama non è forse la città in cui si abita, non rappresenta col suo corpo i vicoli e le piazze sulle quali ci muoviamo sicuri, conoscendo ogni passo che andiamo a fare? E il tempo però assedia il corpo, la memoria è intatta ma le anime aspettano di essere riparate come gli orologi, attendono di ricominciare a sentire i loro ingranaggi in moto in un sospiro disperato e costante.
Questa mattina ho sepolto il tempo – disse con voce stanca. È morto qualche giorno fa, scomparso nella forma di un amico. Riparava orologi, li faceva funzionare oltre il guasto degli anni e delle anime che gli chiedevano di respirare ancora. Sono spariti tutti.