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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte21

di Stefano Saccinto
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Pubblicato il 29/11/2011 11:18:14

Intorno ai quattordici anni avevo tutta una serie di libri tascabili che raccoglievano poesie dei grandi autori. Uscivano in edicola. Ogni mese ne avevo uno nuovo. E conoscevo un posto dietro casa mia, lungo la strada di una delle tante scorciatoie per evitare la salita, su una collina, dove due alberi di noce si allungavano verso il cielo e distendevano i loro rami verso la città raccolta nella conca formata da diversi colli. Dipinto fino alla valle, l'insieme di piccole case dalle facciate rosa, bianche e celesti, si inerpicava lungo il fianco di una collina di fronte, fino al limitare del castello. Il passaggio della gente a piedi e delle piccole macchine lontane, uniti al volo pomeridiano di centinaia di rondini, trasformavano l’opera d’arte rappresentata da quella grande colonia umana in un gigantesco essere vivente disteso sotto il mio sguardo con le alture a fare da possenti cuscini che ispiravano pensieri fugaci del dormiveglia.
Rimbaud, Pavese, Pessoa, Lee Masters, Hikmet, Borges, Thomas, Yeats, li conobbi tutti su quella collina nelle loro piccole edizioni da poche migliaia di lire. Percorrevo il sentiero nell'erba scrutando le sfumature sempre diverse delle nuvole e del cielo. I due alberi di noce emergevano dalla curvatura del colle. Li raggiungevo, mi issavo sui loro rami e mi incastravo nella fionda che formavano. Allungavo una gamba e lasciavo penzolare l'altra e, all'ombra delle loro rade foglie, destrutturavo la città e la ricostruivo in modo simile agli scenari interiori che i versi, con estrema semplicità, riuscivano ad evocare.
A volte, nei giorni in cui mi sentivo più ispirato, portavo sulla collina il mio quadernetto di poesie che non erano poesie. Respiravo le atmosfere dei grandi poeti e lasciavo scorrere la mia penna. Mi puntellavo le labbra con il tappo osservando la città che si arrossava al tramonto e scrivevo un nuovo verso. Non andava mai bene. Decisi che, per espandere i pensieri, fumare potesse essere d'aiuto. Cominciai a fumare una sigaretta alla volta, sulla collina.
La solitudine più bella della mia vita la provai in quegli anni in quel posto. Scoprire il mondo attraverso le parole dei maestri scomparsi era il modo migliore per capirlo fino in fondo, per scoprirne il lato emotivo e vibrante e per raggiungere l’onniscienza necessaria per plasmare la realtà, come se fossi un allievo degli dei. Dalla vetta dell’albero di noce la città era la mia, si poteva coprire tutta con una mano aperta, con una mano spazzarla via e con una mano strapparla alle radici e issarla verso il cielo. La sfida che rappresentava la vita mi sembrava un’avventura che non avrebbe conosciuto limiti e niente poteva togliermi la convinzione che l’avrei vinta. Tutto era ancora da conoscere e innumerevoli erano i luoghi che non avevo visto, i libri che non avevo letto, le persone che non avevo conosciuto. Sapere che non sapevo quello che mi aspettava rendeva la vita bella e libera da qualsiasi ottenebrante forma di destino.
Fermo con gli spettri di un fumo antico che mi avvolgevano librandosi nella semioscurità della stanza, me ne stavo, quasi dieci anni dopo, a contemplare i vecchi ricordi e a battere un dito sul bordo del ripiano del mobiletto del computer, mentre la luce artificiale del monitor mi accarezzava la fronte. Ancora un volta avevo passato ore intere davanti allo schermo senza aver steso una sola riga. La notte esprimeva silenzi che ti invadevano l’anima, interrotti dal rumore dei motori di solitarie auto in transito e dallo slittare delle loro gomme sulle stradine sali e scendi nei dintorni della prima casa in cui io e la ragazza che amavo troppo assai, con la piccola scimmia delirante al seguito, andammo ad abitare. Era una casa piccola, ma indipendente, comprata dai miei genitori per investire il piccolo capitale di cui disponevano, costruita sopra una abitazione a pianterreno, a cui si accedeva per mezzo di un portone in legno massiccio e una ripidissima rampa di scale lunga una ventina di metri. Ci permisero di trasferirci lì a tempo indeterminato senza pagare l’affitto e con la clausola che avremmo potuto starci per quanto tempo volevamo, senza alcun obbligo.
Di tutti i propositi che io e la ragazza che amavo troppo assai avevamo avuto da fidanzati, del letto basso giapponese e della conformazione erotica che avrebbe dovuto avere la nostra camera da letto, degli schizzi alle pareti e delle mie frasi disseminate sui muri di cui avevamo fantasticato un tempo, non restò alcuna traccia quando scegliemmo i mobili per arredarla e quando l'arredammo. Tutti i mobili su cui eravamo almeno un po’ d'accordo erano di una banalità sconcertante. Mi adeguai alla banalità. Per fortuna prendemmo almeno una piccola libreria su cui avremmo messo i libri. Per ora sui suoi ripiani figuravano solo le tre copie dell’antologia. Era un ottimo traguardo.
Il computer era stato parcheggiato in un angolo della grande sala su cui si svolgevano quasi tutte le attività della famiglia. Avrei potuto continuare a scrivere soltanto di notte. La prossima casa, ci dicemmo, la prenderemo con una stanza in cui poter scrivere e tenere gli zaini con le copie di tutti i miei scritti, dalla notte dei tempi in poi, che ormai erano diventati tre. Per il momento li relegai sulle scale che portavano in terrazza.
Avevo fatto delle scelte sbagliate. Questo non si poteva discutere. Il fatto era che se avessi potuto riprovarci, le avrei rifatte esatte uguali. I miei più grandi errori erano più che altro tre. Il primo era stato quello di non concentrarmi mai sulla correzione delle parti di un testo che non mi convincevano davvero. Questo però mi aveva permesso di scrivere sette libri in sei anni, più un numero imprecisato di raccolte in versi. Il secondo errore era stato quello di credere che la diffusione fosse complementare alla stesura di un testo. Il fatto è che scrivere può essere bello come masturbarsi, ma per fare l’amore si deve essere almeno in due. Se poi si può provare a farlo in cinquecentomila, nasce il sospetto che possa venirne fuori l’orgia più soddisfacente della storia. E il terzo errore era quello più complesso ed era quello che riguardava la gente che mi era più vicina: gli amici, la ragazza che amavo troppo assai, i genitori e i fratelli. L’errore era stato tentare di coinvolgerli in qualche modo, convincerli ad affacciarsi al mio mondo o aver permesso che lo facessero, pensare che in quel modo potessi regalare loro ciò che avessi di più bello. Non aver saputo affrontare la solitudine che può provare un pioniere da solo di fronte a un mondo sconosciuto aveva reso debole la mia battaglia, mi aveva fatto perdere di vista le fruste e mi aveva fatto comportare come un qualsiasi deficiente viziato con la pretesa insostenibile di riuscire a vincere i propri mostri. In un certo qual modo avevo sempre sperato che il duro della lotta potesse affrontarlo qualcun altro al posto mio.
L’ammasso di parole accatastato nelle miriadi di file di tre diversi computer divenne fastidioso come l’acceso vociare inconcludente di miliardi di idee contraddittorie, espresse solo per il gusto di sentire la propria voce parlare, per paura di un semplice silenzio. E il silenzio mi divenne amico, si presentò in una forma nuova, più accettata di qualunque parola corrosa dai millenni di falsi significati e dall’abuso reiterato nei confronti della lingua che avevo operato in tutti quegli anni e che i milioni di inutili scrittori della rete, come me, continuavano a esercitare. Scoprii di poter stare giorni interi senza proferire una sola parola, elaborare una sola opinione, un solo dissenso. La vita scivolava via, era quello che doveva fare, nient'altro.

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