OLTRE L’ORIZZONTE
Me ne ricordo bene. Lessi la notizia sui giornali. Un uomo ucciso da un cornicione staccatosi dal quinto piano dell’edificio in cui abitava. Non avrebbe mai immaginato, svegliandosi quella mattina, che il suo tempo sarebbe scaduto di lì a poco. Mi colpì la notizia perché passavo quasi ogni giorno per quella strada, calpestando lo stesso marciapiede sul quale l’uomo aveva trovato la morte. Pensai che fosse toccato a lui, ma qualche possibilità che capitasse a me c’era. Solo il caso aveva provocato la morte di quell’uomo. Fosse uscito un minuto prima o un minuto dopo dal suo portone, ora sarebbe vivo. Il caso determina le nostre vite. I progetti a lungo termine non ne prevedono l’incidenza.
Non è fatalismo, è solo la constatazione della dipendenza sensibile alle condizioni iniziali di un sistema complesso, il celebre effetto farfalla di Edward Lorenz. Attingo dal web una ben nota citazione di Alan Turing (Macchine calcolatrici e intelligenza, 1950): «Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l'uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza».
La possibilità che Elizabeth Miller, una mattina del 1927, si imbattesse, per mero accidente, lungo l’affollatissima Quinta Strada di New York, in Condé Montrose Nast è fatto di tale eccezionalità da spingere Serena Dandini[1] a scrivere: «Ci vuole talento per capitare nel posto giusto nell’attimo giusto…». Lei è una ragazzina di vent’anni proveniente da Poughkeepsie, una cittadina a meno di cento chilometri da New York; lui è nientemeno che l’editore del New Yorker, di Vanity Fair e, soprattutto, di Vogue. Non è la scena di un film, è un fatto davvero accaduto. All’editore basta uno sguardo per capire che a Lee non manca nulla per diventare una cover girl di sicuro successo. Qualche mese dopo il suo volto, sia pure disegnato da Georges Lepape, appare sulla copertina di Vogue. È l’inizio di un lunghissimo viaggio che condurrà la celebre modella, poi fotoreporter e giornalista, nei luoghi più disparati e a contatto col fior fiore della cultura e del jet set internazionali fino all’approdo nel Sussex britannico, finalmente moglie di Sir Roland Algernon Penrose, pittore, collezionista e critico d’arte. La sua biografia sembra un percorso ad ostacoli, così carica d’esperienze e di avventure da far pensare a vite diverse che si intrecciano, si accavallano, si confondono e si perdono nei meandri più tortuosi della storia del ventesimo secolo. Seguirla dà sgomento alla stessa sua biografa italiana, che pure è una “ragazza degli anni Settanta”, allevata col latte tonificante del femminismo militante e delle battaglie per i diritti civili. Lei, Serena Dandini, alla quale non è estraneo lo spirito d’avventura, alza le mani in atto di resa come chi mai potrà competere con la campionessa mondiale della corsa a ostacoli. Ardisce, Elizabeth Miller, oltre l’immaginabile e l’ammissibile, armata di tenacia e del più coriaceo sentimento di sé. Non è “soltanto una delle tante avventuriere, perlopiù sconosciute, che nei secoli hanno scelto la libertà di viaggiare nei modi più rocamboleschi, osando stili di vita impensabili per una donna”. No! Lei è la completa emancipazione della donna, la fattuale rivendicazione di appartenenza a sé medesima (il corpo è mio e lo gestisco io), eludendo e di fatto avversando la tutela maschile allora imperante e dominante come giogo implacabile, il medesimo che fascismo e nazismo sfoggeranno a mo’ di icona della ferinità a loro congeniale. È lei, non un uomo, a uccidere il Minotauro e lo fa con la sua totale, estrema, consapevole femminilità.
Molti di voi, se leggono o hanno letto il libro della Dandini, storceranno il naso o l’avranno storto in più punti durante la lettura. Lo capisco, non lo giustifico. È impresa titanica rimuovere dalla propria coscienza i millenni di cultura maschile che hanno costretto i nostri corpi e le nostre menti in armature metalliche dalle articolazioni rigide, meccaniche, poco oleate. Trasformare dei grotteschi automi in esseri umani non è cosa da poco, soprattutto per i pionieri della metamorfosi. Dovrei dire “pioniere”, trattandosi delle scatenate flapper dei ruggenti anni Venti, le maschiette messe in campo dalle riviste di moda con gli auspici di due celebri donne, Elsa Schiaparelli e Coco Chanel che, svestendole o accarezzandone morbidamente le forme, insegnarono anche agli uomini il valore della nudità. La scenografia è già tutta nell’opera di Francis Scott Fitzgerald. Leggere per credere! La nuova cultura è retaggio di Freud che rivelò ad André Breton e ai suoi numerosi amici e sodali una realtà misteriosa tenuta fino ad allora nascosta dentro la corazza delle convenzioni: ecco il senso della nudità, tutta espressa in quell’arte surrealista che regalò al mondo intero nuove prospettive. Degenere giudicarono nazismo e fascismo quest’arte. Certo, perché smascherava la loro perversione ancor prima che si esprimesse. E si espresse in maniera così feroce e violenta da sconvolgere il mondo intero e da ipotecare la storia futura fino ai giorni nostri. Il sadismo estremo e la cieca violenza ebbero buon gioco su uno sterminato gregge ridotto alla cieca obbedienza entro il grottesco tralignamento di una liturgia cannibale e coprofaga. Quando una malattia della psiche si erige a regime siamo alla vigilia dell’estinzione della specie.
Lee Miller, già allieva del famosissimo e acclamato Man Ray, nonché sua appassionata amante, stanca di essere una fotografia, estenuata dalla trappola mortale della sua stessa bellezza, impugna la macchina fotografica e si trasforma prima in apprezzata fotografa, poi in fotoreporter. Amerà e sarà amata da molti uomini, fino a sposare Aziz Eloui Bey, un ricchissimo imprenditore egiziano. Lo seguirà in Egitto, punterà l’obiettivo della sua macchina fotografica sull’immensa distesa del deserto, sulle piramidi, lasciandoci foto memorabili. Il frivolo ambiente del Cairo e di Alessandria la stancherà presto. Sentirà il bisogno di muoversi, di mettersi di nuovo in gioco. Il tollerante e benevolo Aziz ne asseconderà la forsennata sete d’altrove. Parte, viaggia, fotografa, incontra il suo futuro e definitivo marito, Roland Penrose. Dovrà separarsene presto allo scoppio della guerra. Dopo un breve ritorno negli Stati Uniti, la ritroviamo fotoreporter di guerra per Vogue, invadendo un campo tipicamente maschile. Documenta i bombardamenti di Londra, riceve il placet dell’esercito americano quale corrispondente di guerra per il suo editore Condé Nast. Fotografa lo sbarco in Normandia e la liberazione di Parigi. Entra, tra i primissimi, nei campi di concentramento di Buchenwald e Dachau. Vincendo nausea a orrore, con la sua Rolleiflex comprova, a beneficio e memoria della posterità, l’inimmaginabile spettacolo della ferocia nazista. Il telegramma spedito a Vogue con i rullini recita: «Credetemi, è tutto vero!». Dubita che una rivista di moda abbia il coraggio di pubblicare su carta patinata l’incubo a cui lei ha assistito: montagne di corpi che erano scheletri già prima di morire, senza più nome né dignità, spinti a fatica dalle ruspe verso una fossa comune per scongiurare le epidemie. Lei stessa non potrà mai dimenticare. È esausta. Vorrebbe cancellare, dalla coscienza più che dai sensi estenuati, la sozzura della divisa a lungo indossata, il fango dagli stivali, il fetore dei cadaveri, lo sguardo spento dei sopravvissuti. Il caso vuole che, a Monaco di Baviera, le diano alloggio in una casa su Prinzregentenplatz. È nientemeno che l’appartamento privato di Adolf Hitler, una dimora che avrebbe potuto accogliere il benessere discreto di un impiegato comunale, o di un prelato in pensione con un’inclinazione per l’arte classica e le sue mediocri imitazioni. … Una sobria dignità borghese trasuda da ogni dettaglio. La banalità del male!
Lee si libera degli stivali fangosi, degli abiti e si immerge ne “La vasca del Führer” per un caldo bagno ristoratore. È lì che David Scherman, suo collega e compagno di ventura, la ritrae, nuda, lo sguardo perso, il sudiciume degli stivali sul tappetino, la divisa ripiegata su una sedia. Sulla sinistra, adagiata sul ripiano della vasca, è una fotografia di Hitler.
I due colleghi finiranno a letto, l’una cercando conforto tra le braccia dell’altro. È, il loro, un amplesso furioso, disperato, probabilmente vissuto come terapeutico o consolante da entrambi. Mi piace l’essenzialità dei tratti con cui la Dandini dipinge Dave, un giovanotto un po’ goffo e impacciato al cospetto di una donna imperscrutabile e risoluta, che tuttavia gli si concede come una grazia non richiesta. Capisco il riserbo di Scherman; Lee Miller puoi amarla solo così, a distanza di sicurezza, all’interno di una discreta contemplazione più che di un’irredimibile passione. Lei è una fortezza che non si espugna; la si visita con la discrezione e il rispetto del turista che si aggira per un museo e ne ammira deferente la collezione.
Serena Dandini imperla con brevi camei il discorso narrativo. Ce ne sono tanti; uno, in particolare, mi ha commosso più degli altri. Nel suo lungo peregrinare tra i ruderi della guerra appena finita, Lee approda a Vienna, una città devastata nel corpo e nello spirito. Mentre cammina da sola nella notte viennese, è attratta da un falò in fondo a una strada. Alcuni soldati russi bivaccano insieme a un vecchio signore che accenna per loro timidi passi di danza, pieni di grazia nonostante l’età. Lee si avvicina, e scopre di trovarsi in presenza di Vaclav Fomič Ni˛inskij, il più grande ballerino del mondo.
Chi conosca la vicenda personale dell’étoile dei Balletti russi, magari per averne letto i diari[2], sa quale stridente contrasto possa intravedersi tra la grazia del danzatore di un tempo e l’uomo fuori di senno che sorride felice agli astanti. L’autrice chiosa: «Chi sarà più in grado di riconoscere e proteggere la bellezza?». In questo conciso quadretto è il senso del conflitto che cancellò per sempre la speranza di un futuro migliore. Un mondo incapace di apprezzare la bellezza è preludio di morte. Il calderone del kitsch che ferisce oggi, qui ed ora, i nostri sguardi ci dice che i massacratori dei disabili, dei dissidenti, dei rom, degli omosessuali e di sei milioni di ebrei sono pronti ad altre carneficine. Il Minotauro non è mai stato ucciso e non mi pare che bazzichi per i nostri musei, semmai per i centri commerciali. Per altro verso, la paccottiglia non è neutra, credetemi; è solo banale e inquinante, come la natura del male.
In margine a quanto ho fin qui detto e col rischio di scantonare, mi viene da fare qualche riflessione su alcuni aspetti del temperamento della Miller quali essi emergono dalla penna della sua più recente biografa. Uno che colpisce e che dà un certo sconcerto è certamente la sua scarsa propensione alla maternità. Lee fu una pessima madre. Ebbe da Roland un figlio che oggi, anch’egli fotografo, dirige l’archivio di sua madre e la collezione d’arte paterna (un museo, in altre parole) presso Farley Farm House, l’avita dimora. Anthony Penrose, da bambino, ricevette scarsa o nulla attenzione da sua madre; affetto da dislessia, fu amorevolmente accudito dalla tata, Patsy Murray.
“Era una madre senza speranza. Era priva di naturale istinto materno”, dirà Anthony di Lee. Intanto mi chiedo se questo naturale istinto esista davvero o sia una delle tante leggende che ci siamo inventati per salvarci dalla dannazione. La seconda, credo, non solo perché ho conosciuto altre donne prive dello sbandierato istinto, ma anche perché oggi rinvengo in tanti padri i comportamenti “materni” che un tempo furono pertinenza esclusiva delle donne: tenerezza, amorevolezza, benignità, spirito di sacrificio, corporeità. Sono gli atteggiamenti che osservo in alcuni maschi contemporanei e che spesso sono fatti oggetto di satira sottile da parte dei loro detrattori, maschi anch’essi, che presumibilmente soffrono l’angoscia di castrazione. Finisco col pensare che al comportamento materno si venga educati più che indotti da spontanea inclinazione, che esso sia prodotto di cultura più che di natura e che la femminilizzazione del maschio sia l’effetto di un’evoluzione culturale alla quale non sono del tutto estranee le “ragazze degli anni Settanta”. Certamente non tutti i maschi sono “materni”, ma è perché il machismo è duro a morire, l’ostentazione dei muscoli è tuttora spettacolo ben remunerato (pensate a quanta esibizione di virilità c’è nel cinema, in televisione, in letteratura e come la più celebre creatura di William Moulton Marston, Wonder Woman, abbia avuto fama mondiale solo in tempi abbastanza recenti).
Ciononostante, non voglio escludere la possibilità che le due intense cesure presenti nella biografia di Lee Miller non abbiano influito sui comportamenti e il carattere della puerpera futura: l’abuso sessuale subito in tenerissima età e la traumatica esperienza della guerra vista e vissuta in primissimo piano. E, se è vero che “… la forza che conquistiamo da adulti non serve a proteggerci dalle ferite del passato…”, è altresì vero che la medesima forza schiva le esperienze che le evocano e ci schermisce dai loro assalti. Ognuno elabora il lutto come può, altrimenti il mondo sarebbe popolato di zombie. L’esperienza di guerre feroci continua a lacerare l’anima di tanti, tantissimi nostri simili, mentre l’abuso sessuale è lo sport più praticato dagli antichi come dai moderni invasori, senza dimenticare che le società agro-pastorali di sempre hanno insita la pratica di concedere fanciulle impubere al miglior offerente, un bestione bene adulto aduso ad acquistar vergini immacolate con la stessa disinvoltura con cui rimpingua la mandria. Detto tra noi e senza malevolenza alcuna, mi azzardo ad affermare che Gesù Cristo, dopo tutto, fu figlio di una moglie-bambina. Pare che la pedofilia sia stato un apprezzato passatempo tra le eccelse divinità e che i loro umani ambasciatori, segnatamente negli aridi deserti, ne abbiano seguito il buon esempio. Per altro verso e in termini ben meno giustificabili, tutta la storia del colonialismo andrebbe riscritta alla luce di simili misfatti. Da chi credete che fosse costituita la soldataglia europea inviata a massacrare popoli e stuprar fanciulle che nulla avevano fatto di terribile se non ignorare, per forza di cose, l’incarnazione di un dio estraneo al loro pantheon? Mica a quei tempi c’era internet! Pensate davvero che i vigorosi colonizzatori di un tempo disdegnassero i culetti dei fanciulli quando null’altro s’offriva a raffreddare i bollori a lungo repressi? E cosa mi dite della pratica del madamato ben nota e esperita dai “gentiluomini” del nostro fascismo? Andiamo, lo saprete che la piccola Destà aveva sì e no tredici anni!
Una sana cultura dell’infanzia e dell’adolescenza è acquisizione storicamente recente. Ha attecchito su una minima parte del mondo civile. La spiccia pedagogia del “Qui parcit virgae, odit filium suum” regola ovunque i sistemi educativi e, malauguratamente, dietro la verga si cela l’accondiscendenza all’abuso. La maggioranza dei bambini e degli adolescenti del mondo subisce senza parlare. I pochissimi casi di abuso che arrivano alla ribalta della cronaca sono più un modo di fare spettacolo che di alimentare responsabilità. Si legga la bella, recente denuncia di Garrard Conley[3] per capire che qualche ragione da vendere ce l’avrei; oppure si dia una scorsa all’altrettanto recente romanzo di Marieke Lucas Rijneveld[4], una giovane scrittrice olandese che ci offre uno spaccato inedito e insospettato del suo paese. Libro duro, durissimo, che stride come smerigliatura sulle nostre coscienze! Ma non vi private della lettura di Noi siamo infinito[5], Mysterious Skin[6] o La diseducazione di Cameron Post[7], così, giusto per avere una visione generale delle questioni che pongo. Le batoste subite da bambini e adolescenti sono esiziali, non meno dei sistemi educativi che le infliggono. E mi si conceda venia per questa mia fuga nell’extratesto. Mi aiuta a capire, non senza raccapriccio, chi sono gli elettori di Donald Trump o da dove tragga linfa il suprematismo europeo. Infine, da quali madrase provengono gli odierni kamikaze? A quanto pare, Cristo non si è mai mosso da Eboli.
«Il fisico guarisce, – scrive la Dandini – l’anima sotterra il dolore in un luogo inaccessibile e la vita è costretta ad andare avanti».
Molti di noi hanno avuto genitori latitanti o madri disamorate, ma l’età adulta, corredata da una sana cultura e da generosa intelligenza, ha inclinato al perdono. Così, se ho sofferto la biografia di Lee Miller con viva partecipazione, non posso proibirmi di stimare suo figlio Antony, il quale oggi è il più fervido custode delle memorie materne.
Un nostro antichissimo antenato, tanto tempo fa, ebbe il coraggio di ergersi sugli arti posteriori e dirigere lo sguardo all’orizzonte, oltre il quale l’altrove ci attende.
[1] Serena Dandini, La vasca del fürer, Einaudi 2020
[2] Vaslav Nijinsky, Diari, Adelphi 2000
[3] Garrard Conley, Boy erased. Vite Cancellate, Black Coffee edizioni 2018
[4] Marieke Lucas Rijneveld, Il disagio della sera, Nutrimenti 2019
[5] Stephen Chbosky, Noi siamo infinito (ragazzo da parete), Sperling & Kupfer 2012
[6] Scott Heim, Mysterious Skin, Playground 2006
[7] Emily M. Danforth, La diseducazione di Cameron Post, Rizzoli 2018