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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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I divoratori

Romanzo

Stefano Sgambati
Mondadori

Recensione di Timothy Megaride
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Pubblicato il 29/01/2021 12:00:00

 

C’è poco da fare, lui è fatto così! Ne ho letti più d’uno di libri suoi e sono sempre giunto alla stessa conclusione: va bene, ma poi? Nulla. Non c’è un prima né un dopo. C’è la nudità della scrittura, il groviglio della parola, l’arzigogolo delle similitudini. Ti devi districare tu, lettore, nel ginepraio dell’intreccio del quale non sai la direzione. Avanzi a casaccio, pedini la voce narrante, la quale muta e ti confonde perché ignori il battistrada: questo chi è, da dove è uscito? Poi, con un po’ di buona volontà, ne vieni a capo, ma sei stato anche deviato dal percorso che avevi in mente di seguire. Un casino. Ti sembra di guardare uno di quei quadri cubisti nei quali la scomposizione della figura ti disorienta, anche se non puoi impedirti di guardarla. È attraente proprio perché è sfuggente, inafferrabile, spigolosa come una geometria stratificata.

Sono stato spesso sul punto di rinunciare; poi, non so come, non so perché, una vocina mi diceva di proseguire. Mi trovavo all’interno di un incubo, desideravo venirne fuori ma… più mi affannavo, più mi impaniavo. Bere o affogare? Bere! Col risultato di ritrovarmi infine con la pancia gonfia e il cervello andato in pappa. Vabbè, che posso farci? I sogni sono così: alla luce della razionalità non ci capisci un cazzo: che ci azzecca mio nonno con Cristoforo Colombo? Vattelappesca!

Gesù, questi sono numeri! Perché trovo attraente qualcosa che non mi piace? Mi sento un ossimoro. Dopo aver letto il libro avevo voglia di Victor Hugo, di Jane Austen o roba del genere, a mo’ di antidoto o emetico, fate voi. Invece la mia mente tornava maniacalmente alla mappazza appena ingurgitata.

Di cosa tratta il libro[1]? La copertina lo definisce romanzo. Tu pensi che dovrebbe raccontare una storia, organizzata in maniera tale da tener desta l’attenzione del lettore, con tanto di intreccio, climax, spannung, scioglimento finale. Cose del genere. Invece non viene raccontato nulla. Ti trovi dinanzi a una specie di ambiente situazionista in cui le passioni umane trovano libera espressione entro un contesto ludico o, quanto meno, della sua parodia. È un lussuoso ristorante milanese nel quale convolano a cena diversi gruppi di persone, chi per caso chi per essere testimone dell’evento mondano che vede al centro dell’attenzione degli astanti e presumibilmente dei media una celebre coppia di attori hollywoodiani, entrambi famosissimi, ricchissimi nonché bellissimi.

Non posso raccontarvi la trama perché non c’è alcuna trama. Ci sono i personaggi che agiscono come marionette della coreografia di un gigantesco orologio a cucù. La finzione narrativa ci fa conoscere qualche loro pensiero, ci mostra qualche tic o gesto studiato, svela qualche retroscena più o meno indicibile e ben nascosto dai paludamenti e dal convenzionalismo del ruolo. C’è la chiacchiera salottiera, talvolta intrisa di secondi fini; c’è la liturgia della forma che il luogo prescrive. Dietro le maschere, ci sono i volti grotteschi di un’umanità sacrificata all’altare delle apparenze. Qualcosa accade e crea il gran trambusto finale. Alimenterà per qualche settimana o qualche mese il gossip globale, poi tutto tornerà come prima. Non è un caso che ad aprire e chiudere il racconto ci sia lo stesso taxi. A guidarlo è il medesimo tassista, l’uomo qualunque, uno di noi. Dopo tutto, non è successo nulla e ciò che è accaduto sarà presto dimenticato a vantaggio della prossima pagliacciata da sbandierare ai quattro venti.

Siamo messi male, chiusi perennemente in un circolo vizioso. Giriamo in tondo per ritrovarci, infine, al punto di partenza. È così che ci appartiene questo mondo, divoratori gli uni degli altri, attori dello Show business globale. Volendo possiamo riconoscerci nel campionario di umanità che Sgambati mette in scena.

Saverio e Elena finiscono a letto dopo essersi incontrati per caso al funerale di una comune conoscenza, una certa Irene della quale il primo fu un tempo amante: Eros e Thanatos in un Minstrel show. Non meno grottesca è la coppia Giordano Tirreno e Frida Astori, lui anziano intellettuale, lei quasi una ragazzina. Galeotto fu il web. Il personale del ristorante ha bollato il professore, già ospite televisivo di Fabio Fazio, come pedofilo. Per la verità la letteratura e il cinema sono pieni di simili accoppiate. Philip Roth è maestro nel darcene conto; Woody Allen, nell’immaginario collettivo, è quasi l’emblema dello sporcaccione matricolato. Suvvia, siate generosi, bisogna pure che il corpo esulti in qualche modo e, se il citrato di sildenafil della Pfizer (sì, la stessa casa farmaceutica del famoso vaccino) può restituirci antiche esultanze, ben venga a dispetto del decoro del quale restiamo fieri.

Al centro della scena ci sono loro, i divi di fama internazionale, Daniel William King e Sally Parson, marito e moglie, due fossili della bellezza da rivista patinata. Sorridono, ammiccano, scrutano con discrezione i presenti secondo un copione che li vuole protagonisti ben oltre il set cinematografico. Gli obiettivi degli smartphone li scrutano dovunque vadano. Ogni loro gesto vale una pioggia di dollari, per gli editori e le emittenti televisive. Lo scrittore si è probabilmente ispirato alla coppia Brad Pitt e Angelina Jolie. Per dirci che dietro le maschere ci sono volti tormentati. L’avevamo capito. Pirandello docet! L’autolesionismo è un atto di disperata ribellione. È sterile, non serve a nulla. Se Daniel, puta caso, morisse, ci sarebbe già pronto l’emulo di pari o maggior valore. Anche la morte è un ottimo affare per il burattinaio del momento. D’altronde Narciso annegò nella pozzanghera in cui si vide riflesso. Non mi pare l’unico e la storia ha proseguito il suo corso. Oggi forse la storia è al palo, ma il gossip avanza ovunque e fa circolare parecchio denaro.

Tra il personale del prestigioso locale emergono da un lato il proprietario, lo chef Franco Ceravolo, dall’altro il maître Carlo Di Martino, un gradasso napoletano che sa come tenersi il ben remunerato impiego. Il primo forse allude a Carlo Cracco, cocaina a parte, e non saprei dire se sia volontario o accidentale il link che rinvia al romanzo precedente dell’autore, dove, se non ricordo male, il nome di Cracco è fatto esplicitamente a proposito di un format televisivo. Forse a Stefano Sgambati piacciono i programmi di cucina oppure vuole semplicemente dirci che la gastronomia fa più audience di altre arti.

A prescindere dalle prerogative del ruolo, la biografia del maître oscilla tra due tavoli, uno che ospita la sua chiassosa famiglia napoletana, parenti e affini inclusi, l’altro al quale siede una tal Vesta, un tempo prostituta delle cui prestazioni Di Martino ha fruito, oggi apprezzata e ben remunerata ballerina con tanto di rinomanza televisiva. Significa che chi mostra le cosce in televisione deve la sua carriera alla previa professione? Non lo so e non mi interessa. Vorrei soltanto interpretare il gesto della ballerina che, per tutta la serata, finge di ignorare il cliente di un tempo, ma infine gli lascia sul tavolo una busta con cinquecento euro, il corrispettivo del sovrapprezzo della pattuita marchetta, per una sua prestazione “speciale” non inclusa nel prezzo base. A me non sembra tanto orgoglio femminile quanto vendetta, dispetto. Se lui non è Petrarca, lei non è certamente Laura. Entrambi si crogiolano nella deiezione di quella che un tempo fu detta civiltà.

A me sembra che Sgambati voglia offrire ai suoi lettori un campionario di umanità quale essa appare agli occhi di un millennial di sicura competenza e lo fa osservando il mondo attraverso l’enfasi dell’universo mediatico nel quale tutti siamo protagonisti, comprimari o comparse di un colossale Truman Show. Ma poi le falle della scenografia ci rivelano la verità di ciò che siamo. La realtà virtuale è tutt’altro idilliaca. Come difenderci dalla pania degli algoritmi che rendono goffi i nostri gesti?

Teresa, la madre di Carlo, sembra afflitta da un principio di demenza senile; se ne sta lì, noncurante del trambusto che la circonda. Cos’è, stoica apatia, la divina indifferenzadel falco alto levato? È una risposta al male di vivere del terzo millennio?   

Sembrerebbe di sì, a giudicare dall’inefficacia del gesto di Daniel. Clamoroso, scellerato, sacrilego, tanto più che dettato da un impulso non contemplato dal copione. Nulla di male, a tutto c’è un rimedio: si modifica il copione. Quante volte la sceneggiatura è stata emendata in corso d’opera? Il pubblico neppure se ne accorge e lo show business, in fin dei conti, attinge a un nuovo e più ricco filone aurifero. Al tramaglio non si sfugge!



[1] Stefano Sgambati, I divoratori, Mondadori 2020


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