Pubblicato il 27/11/2011 00:00:16
Enea percorreva lentamente il marciapiede del viale allontanandosi da Ponte Garibaldi, si sentiva stanco e depresso e, come gli accadeva spesso quando era di umor nero, stava rimuginando su ciò che da sempre considerava il primo affronto perpetrato nei suoi confronti: l'essere stato chiamato Enea. Benché ormai il suo rancore si fosse molto attenuato, gli tornavano ancora spesso in mente gli stupidi lazzi dei compagni di scuola, chissà perché tanto stimolati da quel nome. In pochi minuti al sereno del giorno era subentrata una notte gelida come poche ne ricordava a Roma. Tutto normale, pensò, a metà Gennaio. Passò davanti al cinema Induno, distrattamente, ma dopo qualche passo trasalì rabbrividendo per il freddo e decise di tornare indietro per vedere quale film fosse in programma, poi, dimenticando di farlo, comprò un biglietto ed entrò direttamente nella sala completamente vuota. Stava ormai per tornare alla cassa a chiedere spiegazioni quando le luci si spensero ed iniziò la proiezione del secondo tempo del film "I pugni in tasca" di Bellochio. Bel film, pensò, bella Paola Pitagora. Aveva già visto il film un paio di anni prima al cinema Arlecchino in via Flaminia, allora assieme a non più di tre o quattro altri spettatori, nonostante il grande entusiasmo con cui il film era stato accolto dalla critica. Uscendo dopo circa un'ora si trovò a camminare svelto, irrigidito dal freddo. Poche auto passavano e nessun pedone, una Roma irreale, siberiana, il cielo nella notte ancora rosso a ponente. Seguendo con la mente il corso disordinato di pensieri in libertà, attraversò il Tevere passando per l'Isola Tiberina, poi seguì i lungofiume fino a ponte Sant'Angelo. C’era una sgradevole tramontana e, dentro, sentiva il sangue stentare a scaldarlo e rabbrividiva. Da un poco stava seduto sul parapetto. Entro pochi minuti sarebbe stato costretto ad alzarsi e a cercare riparo. Un vecchio macilento gatto stava fermo, quasi appoggiato con il fianco al parapetto, rigido, più morto che vivo. La mente di Enea ora vagava, non vedeva più il gatto. La nostalgia lo sgomentava. Improvvisamente ebbe l’impressione di vedere la sua donna, già non più sua, lì davanti a qualche metro esitante, ma subito di vederla precipitare lontano da lui e dal luogo. Quasi gridò forte il suo nome, forse lo fece, e non c’era nessuno vicino. Si alzò strinse il bavero della giacca attorno al collo ed accese una sigaretta. Aveva inciampato nel gatto, lo smosse allora con la punta della scarpa e s’accorse che era rigido stecchito. Si chinò e vide gli occhi del gatto aperti spalancati. Se non è ancora morto, pensò, non ha scampo. Allora Enea quasi corse in direzione di Corso Vittorio e gli facevano male i muscoli e le ossa per il freddo. Si trovò a salire le scale buie di un vecchio palazzo in via dei Banchi Nuovi, ed a cercare alla luce di un fiammifero l'interno 10. Guido Coletti, il suo amico degli anni della scuola elementare di Via Cassiodoro, grembiuli blu e colletto inamidato con l'ignobile fiocco bianco, lo guardò incuriosito e stupito attraverso l'uscio semiaperto. "Enea!" esclamò, "sono contento di vederti"...
Enea salutò Guido con calore ma subito si distrasse alla vista nell'atrio in penombra del suo compagno di tante vicende ciclistiche, Fabrizio Semper, in vicinanza alquanto disinvolta a una ragazza dalla strana, enigmatica avvenenza. "Ciao amico mio" disse Fabrizio" lei è Faatin... Ma Enea ormai era lontano con la mente, Faatin pensava, la "mia" Faatin, la venditrice di dischi.
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