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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte15

di Stefano Saccinto
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Pubblicato il 22/11/2011 02:46:13

Non ebbi il tempo, in quei mesi, di annusare l'aria e di fiutare l'arrivo della tempesta, del cambiamento. La ragazza che amavo troppo assai aveva terminato gli studi di ragioneria soffrendo più del dovuto gli esami finali e aveva da poco iniziato l’università a Bari con un corso denominato pressappoco: Diploma di Laurea in operatori sociali. Una di quelle strane cose senza futuro, surrogato di chissà quale altro inutile corso del tutto simile al mio. Delle nostre vite non sapevamo precisamente cosa volevamo farne. Io sapevo che volevo scrivere, lei sapeva che volevo farlo e si era resa disponibile a non intralciarmi in alcun modo. Era molto romantica e subiva tutti i miei complessi, utili o meno, riguardanti la vita e la pseudo arte. Per di più era eccessivamente timida e rinunciataria. Non affrontava mai un dibattito, fuggiva a nascondersi con finta altezzosità. Era elegante, anche nel modo di mandarti affanculo. Lo fece proprio ad un esame di storia contemporanea in cui un giovane assistente fascista, genere d’uomo incapace che è riuscito ad ottenere una posizione assolutamente immeritata e che per questo è costretto a fingere estrema precisione per la disciplina, le chiese chi fosse il presidente americano in una stabilita data. Non si trovarono d’accordo e il ragazzo concluse che non poteva promuoverla. Oppure poteva, ma solo col minimo dei voti. Lei si alzò dalla sedia, assunse l’espressione più sdegnata di cui fosse capace un essere umano e mosse il suo culo jeansato verso me e i suoi genitori lì presenti, sorreggendo i libri sul petto con gli occhi aperti per appena mezzo millimetro.
- Andiamo – disse. Pareva che la cosa non l’avesse minimamente toccata. Durante il tragitto per il ritorno a casa, poi, i pianti si sprecavano. Ma sempre restava quel modo elegante, che connotava ogni suo gesto, di bestemmiare l’assistente fascista, in cui la parola deficiente rappresentava il massimo grado di turpiloquio.
Seppi fin da subito che non potevo vivere in quel modo: sofferenze e depressioni per i miei esami e per l’inutilità del mio corso di studi, sofferenze e depressioni per i suoi esami e per l’inutilità del suo corso di studi. Lei per di più veniva bocciata. Tutta questa fatica per garantirsi un futuro da disoccupati non mi sembrava proprio espressione di una garantita intelligenza.
Però le cose andavano così, pioveva sulle nostre giovani teste e noi tremavamo al freddo delle aule universitarie sperduti in contesti che, quando c’eravamo amati le prime volte, non avremmo mai immaginato per noi. L’amore sembrava passato in secondo piano. Lo facevamo nel piccolo e gelido ripostiglio in cui tenevo la moto. Era il nostro riparo da tutto, ma nelle nostre menti i pensieri esterni si infittivano e creavano un languore continuo che non ci permetteva di essere davvero felici. Di quegli enormi impegni avremmo dovuto fare a meno, ma già studiando e lavorando avevo problemi coi miei genitori sul fatto che andavo a dormire tardi la notte e mi svegliavo intorno a mezzogiorno, se avessi davvero deciso di testa mia, probabilmente mi avrebbero denunciato a qualche consiglio superiore.
Crescere era la cosa migliore che poteva capitare a chiunque, ma la strana connessione tra responsabilità e libertà, avevo forti difficoltà a comprenderla. Su di noi giovani adulti si riversavano forse i rancori dell’intera vita dei nostri genitori: le fatiche intraprese per costruire una famiglia, per garantirsi e garantirci un tetto, le continue liti sull’educazione, sul ponderato utilizzo del denaro e tutto il resto erano decisamente più importanti della nostra felicità, soprattutto se per la nostra felicità eravamo valutati, ai loro occhi, nullafacenti. La nostra generazione era marchiata. Destinata a distruggersi tra la mancanza di lavoro e la necessità di dimostrare sacrifici superiori a quelli che si diceva avesse fatto la generazione precedente. E i sacrifici erano tarati sull’ottenimento di risultati. Che puntualmente non raggiungevamo. Il fatto era che per noi non c’era neppure l’eroina a porsi come giustificazione per la nostra incapacità. Dovevamo farci il culo e basta, senza scuse. E senza ottenere niente e per questo continuare ad essere giudicati falliti. Io lavoravo a giornate per più di dodici ore alla volta e cercavo di pagarmi tutto quello che mi competeva. Ma vedevo lo sguardo grave che assumeva mia madre quando a mezzogiorno mi avviavo all’esplorazione della cucina e lo sguardo accigliato che aveva mio padre quando al suo rientro avevo ancora il pigiama e capivo che niente sarebbe mai bastato per renderli soddisfatti.
Ai miei occhi io e la ragazza che amavo troppo assai eravamo bellissimi, eravamo esseri perfetti. Ci bastavamo sempre, non ci serviva altro che le nostre piccole vite inutili per essere felici. E ci capivamo in un modo incredibile, bastava che ci guardassimo, per sapere cosa stavamo pensando, ci scambiavamo comprensione per osmosi. Ma il mondo non poteva capirci. Se rischiavamo di essere felici avremmo dovuto anche accettare di essere definiti egoisti, ignari del malessere che assediava le vite attorno a noi. E quelle vite poco per volta finirono per insidiarsi nelle nostre, dalle cattedre universitarie, dagli spogliatoi al lavoro, dalle postazioni in cucina delle mamme e fuori dalle porte dei cessi con la voce irragionevolmente adirata dei padri. Ci spingevano di continuo verso qualcosa che non sapevamo, costringendoci a decidere della nostra vita, per forza, anche se non volevamo. Accettavamo di studiare, accettavamo di lavorare, lo facevamo per il nostro bene, ma il bene non arrivava mai. E le crisi di identità, invece che risolversi, si rafforzavano.
Al confronto con tutti questi gravissimi problemi che non avevo mai saputo di avere, e che invece sembrava che avessi proprio, tutte le mie farneticazioni letterarie mi parvero il gioco incomprensibile di un bambino viziato. Mi chiedevo perché mai avessi deciso di scrivere e perché non mi fossi ancora liberato di quello strano vizio. Non capivo come avessero fatto gli altri, tra scrittori e poeti, i signori Conrad, Ginsberg, Bradbury a diventare grandi senza smettere di scrivere. Dovevano essere dei veri e propri idioti, ma per fortuna io cominciavo a ravvedermi. Pensai che dovevo concentrarmi su qualcosa di più concreto, accelerai con gli esami universitari e cercai di lavorare ancora di più. Gli specchietti che avevo montato per le allodole finirono per cominciare ad ingannare anche me.
Gli incontri con la ragazza che amavo troppo assai divennero essenziali perché riuscissi a ricordare un motivo per cui valesse la pena di trascinarsi avanti. Oltre la porta di ferro dipinta di rosso del box per la moto, la vita aveva di nuovo senso. Studiavo il suo corpo nelle sue pose eleganti e ricordavo da dove venivo, più o meno chi ero e più o meno dove volessi andare. E sapevo che, dovunque fosse, volevo andarci con lei. A volte, dopo l’amore, le sussurravo al buio, sulle labbra, epigrammi di Catullo e versi di Rimbaud, li tenevo a mente per tutta la giornata per sussurrarglieli soltanto. Altre volte partivo con strane ispirazioni a cui non davo freno, vedevo le parole incurvarsi come fumo di una sigaretta su per il buio della stanza per finire inghiottite dal nulla del nostro tempo senza la frenesia di avere un foglio sotto le mani per vergarle. Così era molto meglio, meglio che scriverle, meglio che impazzirci. Si respirava una pace inaudita. E ci lasciavamo andare ogni volta di più perché il nostro egoismo ci era caro e ci permetteva di vivere in un’epoca ostile alla felicità.
Forse ci lasciammo andare davvero troppo quando, alle soglie della primavera del duemilatre, ci risvegliammo dall’estasi dell’orgasmo e intuimmo che un coito non proprio interrotto e il massimo periodo di fertilità del suo corpo creavano un’inquietante sovraccarico ai nostri già numerosi pensieri. Ci rivestimmo e uscimmo fuori al freddo. Entrambi sapevamo che non c’era da preoccuparsi e basta, ma da cominciare a pensare cosa avremmo dovuto fare dal giorno dopo. Ma il giorno dopo appariva ancora lontanissimo.
E invece arrivò e arrivarono i successivi. Quelli in cui i ritardi cominciarono ad accumularsi sopra i ritardi. Quelli in cui ripercorrevamo tappa per tappa tutti i singoli movimenti di quella sera, rifacevamo i conti al meglio, ci informavamo sulle enciclopedie mediche e scoprivamo che era tutto a posto. E poi scoprivamo che non era tutto a posto. Allora cominciavamo a inventare teorie assurde sugli stati di conservazione degli spermatozoi all’interno dell’utero e sull’inizio del viaggio dell’ovulo all’interno del ciclo mestruale. Arrivarono i giorni in cui, seduti su una panchina a Bari, davanti all’ateneo, con gli zaini sulle spalle, ci tenevamo le mani e guardavamo la dura pietra su cui eravamo seduti. E poi iniziava a piangere lei e io cercavo di non essere da meno. Ci mettevamo in piedi, la tenevo stretta e cominciavo a dirle che forse poteva essere la cosa migliore che ci fosse mai capitata, che tanto avremmo vissuto come il cazzo le nostre vite cercando una sistemazione e invece così non avremmo potuto programmare niente e le cose sarebbero andate come volevano andare. Pensavo che avevo perso il controllo. Di tutto. Ma andava bene lo stesso, il controllo non era necessario, spesso mi era sembrata decisamente più interessante l’incoscienza.
Lei era incinta. La tempesta era finalmente arrivata.





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