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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte14

di Stefano Saccinto
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Pubblicato il 20/11/2011 23:16:56

Decisi di sforzarmi a scrivere una raccolta di racconti horror. Ne avevo alcuni nel mio repertorio, potevo scriverne altri tre o quattro e metterli insieme. Sarebbe stato un libro. Ma le idee non è che mancassero, dovevo proprio costruirle da zero a forza di ficcarmi due dita nella mente, vomitare qualcosa di confuso e cercare di mettere ordine. Lo stesso presi la fissa. Riciclai tutto quello che mi era possibile recuperare dal materiale di quando avevo quattordici anni. Era poca roba, quattro o cinque racconti assolutamente poco originali di tre o quattro pagine. Erano tutto quello che componeva il mio manifesto horror, non aveva alcun valore.
Una mano la tenevo sotto il mento e con l'altra battevo tristemente le lettere sulla tastiera. Spesso mi davo gli schiaffi in testa per cercare di smuovere qualche pensiero e di far vibrare qualche connessione tra neuroni, ma la storia era sempre la stessa: non usciva fuori niente di buono. Completai la raccolta in pochi mesi, una delle cose più orrende che i miei occhi avessero mai letto, al punto che non ebbi neppure il coraggio di rileggerla per intero. Alla fine non ce l’avevo fatta a reggere un sufficiente numero di pagine con le storie horror e così ci inserii dentro anche qualche racconto di altro genere, convincendomi che fosse attinente. In qualche modo. Stampai la raccolta in A5 con una copertina e un titolo stupidissimi e la passai a qualche amico che me l'aveva chiesta.
Passarono diversi mesi tra inutili esami di inutili materie di cui non mi interessava niente, il buio che aveva occultato qualsiasi dorato scenario nella mia mente e il ripetersi ostinato degli zero alla voce messaggi in arrivo sulla mia casella di posta. Quel silenzio protratto e la sterilità di contatti, commenti o letture che i miei testi provocavano cominciò a farmi comprendere che io in realtà non avevo mai avuto le prove che fossi davvero uno scrittore. Uno scrittore capace di coinvolgere un possibile pubblico o di convincere un editore a pubblicare la sua opera. O erano tutti distratti da chissà cosa oppure c’era un livello letterario superiore a cui non ero mai approdato.
Girando per i vari siti, visitavo i profili di donne e uomini molto più grandi di me che ancora si arrovellavano su racconti e poesie senza riuscire a provocare alcun interesse, pagine dalle vedute estremamente ridotte che raccoglievano tristi commenti di banali lettori sull’emotività che si pretendeva tali racconti riuscissero a provocare. A me venivano le paranoie. Ingoiavo saliva incollata alla lingua e prendevo a sudare freddo. Immaginavo le schiere ricurve di anziani scrittori incapaci che raccattavano nell’immondizia letteraria per tirare su un nuovo racconto che rischiava di provocar loro feroci attacchi cardiaci per l’eccitazione. Li immaginavo uno ad uno seduti al lume di una flebile candela mentre sistemavano gli occhiali sul naso e si sfregavano le mani, perversamente eccitati da qualcosa che desideravano con avidità, ma che non sarebbero mai riusciti ad ottenere, come le attenzioni sessuali di una quindicenne, ad esempio. E poi vedevo i loro occhi brillare per il più stupido dei commenti: ‘Un bel racconto. Ben scritto’. Li vedevo sorridere, appagati della loro inutilità e cliccare sul pulsante avvio per poi spegnere ed andarsi a coricare sotto tristi coperte. Ancora una volta avevano fregato la letteratura. Perché non avevano mai sperimentato, mai osato, mai oltrepassato alcun invalicabile limite. E nonostante tutto avevano il diritto di sentirsi Scrittori.
Erano gli equivalenti letterati degli uomini-azienda, eredi delle segrete apparizioni della mia infanzia. Mi provocavano terrore, sempre meno fisico, sempre più fine, sempre più psicologico. Io frequentavo i loro stessi siti, contattavo le loro stesse case editrici e provavo per me la stessa identica tristezza che emanavano i loro nomi. Erano nomi che non avevano niente da dire al mondo. Guardavo il mio, cercando di puntarlo da diverse angolazioni, ma mi dava una strana sensazione: neanche il mio nome sembrava voler dire niente di particolare. La stessa cosa facevano i titoli dei miei testi. Per me potevano significare qualcosa, ma cosa avrebbero potuto significare per chi li vedeva per la prima volta, immersi nelle lunghe liste immemori che scorrevano ogni giorno sulle centinaia di homepage presenti nella rete?
Niente. Erano titoli anonimi di un utente anonimo disperso nella rete. Eravamo tutti anonimi: io e gli scrittori anziani, io e le brutte adolescenti sentimentali, io e i milioni di persone che si fingevano scrittori solo perché incapaci di vivere una vita degna. Questi terribili pensieri sconvolgevano la mia mente. Cercavo di convincermi di essere diverso da loro. Mi dicevo che avevo la giovinezza dalla mia parte, ma pensavo che tutti erano stati giovani una volta. Pensavo che io avevo letto Hesse, Hemingway e Kerouac, ma convenivo che non fossero così difficili da reperire. Avevo scritto i romanzi, ma potevano averli scritti anche loro. Non li pubblicavo in rete per gelosia, ma la stessa cosa potevano aver pensato di fare loro. Era come vedersi allo specchio, scoprirsi davvero ripugnanti e voler fuggire dalla propria immagine credendo in quel modo di poter rimettere a posto i propri connotati. E così presi a deprimermi e pensai che poteva essere vero, che potevo essermi ingannato per tutto quel tempo. Pensai che potevo non avere niente di speciale, che potevo non avere un vero talento e non aver scritto nulla di veramente interessante in tutto quel tempo. Doversi giudicare da soli non era facile, si perdeva di vista il senso della misura, ma era quello che mi toccava fare, dal momento che dall’altra parte un perpetuo silenzio si stendeva su qualunque cosa pubblicassi.
La mia lotta contro il meccanismo, gli anni passati a inseguire una sola, lunga storia, le visioni dentro le visioni che si rompevano diventando polvere di vetro su altri innumerevoli scenari provenienti dal nulla, tutto cominciò a collassare lentamente su se stesso, a comprimersi, ad assumere proporzioni infinitesimali rispetto anche al più stupido degli oggetti reali. Pirandello diceva che non esisteva la possibilità di vivere la vita se si intendeva anche scriverla. Me ne rimaneva ancora molta e non avevo mai deciso davvero cosa farne. Capii che dovevo concedermi un lungo periodo per rifletterci, nella speranza di non perdermi per sempre in quel dilemma. Ma il segreto motivo dei miei tormenti era che avevo volutamente dimenticato dove avessi riposto le fruste, nella ferocia del dubbio che stessi scrivendo per vivere meglio o che stessi vivendo per scrivere e basta.
Alle soglie dell'inverno del 2002 la distribuzione della raccolta di stupidi racconti horror ebbe esiti inattesi. Avevo dimenticato che l'avessi mai scritta, la sera in cui il mio amico chitarrista, che tempo prima mi aveva regalato la bellissima copertina di 5, scese dalla sua auto e fece vibrare il testo nella sua mano. Sorrideva. Doveva aver intuito che era il contrario di un capolavoro.
- Ho trovato la trama del primo film che girerò - mi disse.
- Bene. E qual è? - gli chiesi.
- Malko - mi rispose.
Mi guardai attorno. Era il mio. L'avevo inventato io. Senza dubbi. Era il secondo racconto del libro.
Nello stesso periodo, nei tempi in cui io e la ragazza che amavo troppo assai leggevamo i miei testi, man mano che progredivano, direttamente dal computer, Malko aveva fatto una strana impressione anche a lei. Le piaceva. Dirlo così è banale. Ma i suoi occhi mi dicevano qualcosa di più. Quella cazzata contorta, su uno psicotico psichico seduto su una sedia a rotelle, le aveva devastato la mente. Sono gusti. Doveva avere qualcosa di eccezionale che non avevo colto. Mi convinsi che fosse la cosa migliore che avessi mai scritto e decisi di tirarlo fuori dalla raccolta e farne un romanzo. E tutto rientrò nella anormale normalità che contraddistingueva la strana vita che mi ero scelto.

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