Proponiamo due punti di vista sul libro di Francesco Lorusso, quello di Gian Piero Stefanoni e quello di Paolo Polvani
Recensione di Gian Piero Stefanoni
Quest'ultima fatica di Francesco Lorusso, cinquantenne pugliese alla quarta pubblicazione in poesia (e di cui già avemmo modo di parlare nel 2016 ai tempi de "L'ufficio del personale") e abile indagatore dei rapporti tra scrittura poetica e musica, come concertista e corista nei teatri lirici (nonché Maestro e direttore di Coro), ci offre l'occasione di riflettere a proposito scelte e valori cui ogni autore si trova chiamato nella proposizione concreta del proprio lavoro. Queste pagine nella cinquantina circa di testi presentati appartengono infatti a un periodo certo non recente, scritti fra il 2009 e il 2011 in un periodo come riferito di crisi, se non di esaurimento della propria natura creativa e per questi messi da parte, e mai proposti. Quale il senso allora viene da chiederci di questa ripresa, di questa rilettura dopo la successiva riuscita del dire poetico? Lorusso, forte di una coscienza poetica non banale, viva nella remissione umile, d'ascolto delle forme più che spezzate del mondo, tiene a informarci che anche da pietre invisibili, nell'impasto di un calce che tenta l'affermazione dal fondo, può rivelandosi nella risalita ogni vera e salda costruzione. Il lettore, nella veste della sua necessaria rispondenza, in questo caso non può che aderire certificando con favore risonanze di una presenza antica tra le distonie di disappartenenza del tempo e regressione della parola dal fondo appunto di una umana spazialità di sconcerto a dire allora di noi, del nostro quotidiano presente sempre l'angolo di allerta nella misura dell'esplosione o del frammento. Della crepa, allora, per meglio dire entro quadri di città e strade all'apparenza metafisiche ma in realtà più che concretamente nella fisicità di una carne nel sospetto della sua impossibilità a compiersi se non nella deriva di un sempre più inospitale, e inoppugnabile senso. Sembra prendere allora le distanze da sé- per tornare a sé- l'uomo di Lorusso, fedele solo alle aperture che gridano dalle fratture l'incandescenza di una reciproca espansione delle forme nella restituzione di un reciproco appartenere come d'origine che il verso prova a vegliare dagli interstizi seppure nella provocazione di disconoscimenti che pure si affacciano pronti a rigettare continuamente sguardi e prese d'insieme nella smentita di un mistero cui forse non si appartiene, o che non ci riguarda, ed al cui snodo non si può che restare sospesi. Di questo si nutre questa scrittura, tamburellata, nella perseveranza di mani che sole da una corporalità sempre più evanescente sembrano levarsi, nel raccoglimento, nella preghiera ad un riappropriarci che è dapprima un riapparirci. Questo ci sembra l'indice di un percorso, e di un orizzonte che ha nella fedeltà al proprio perseverante scrutare il valore di un riferimento negli anni pienamente confermato.
Recensione di Paolo Polvani
L’ora fatta di fresco è arrivata
Maceria è il titolo dell’ultimo libro di Francesco Lorusso. Sul dizionario Treccani il significato più comunemente attribuito al termine è rovine di edifici, più rara invece l’accezione di raccolta di pietre tolte dai campi e radunate sul confine dei fondi, spesso sistemate a muricciolo a secco, per contenere eventuali scoscendimenti o per protezione degli alberi.
Dunque un primo significato va nella direzione del risultato di un esito distruttivo, in senso opposto, di contenimento, di delimitazione, l’altro significato.
I testi sono preceduti da una bellissima prefazione, opera di Giacomo Leronni, che incarna la funzione precisa di essere un manuale d’istruzioni più che dettagliato sull’uso da fare di questo libro. Non si accontenta, come spesso accade, di accompagnare il cauto turista per le strade luminose o per i sentieri impervi dei testi illustrandone le bellezze da cartolina.
Suggerisce invece come maneggiarli, da che lato prenderli, e quali cautele usare. Comincia subito col dire che qui non viene narrata nessuna vicenda esistenziale, e che questa poesia non intende refertare il quotidiano, e tantomeno intende redigere proclami. E forse conviene concederci subito un assaggio per capire meglio in quale direzione voglia condurci l’autore:
Adorni la mia calma
cucendomi gli spigoli
con parole superiori
sono le sole che rapisci
alla smania della terra
come una fiaba lunga di pane.
Ora le trattieni alle tue sere
senza riconoscere il peso aspro
delle mie lunghe lune speranzose
Dunque conviene tornare al manuale d’istruzioni e metterne in pratica i consigli:
- Il poeta è in quanto facitore di linguaggio. Essenzialmente, sperimenta se stesso in quanto capace di riprodursi in linguaggio, di tramandarsi in parole…-
e appena più avanti afferma che - il linguaggio che è in grado di generare attraverso l’esperienza poetica è la sua unità di misura, l’atto che certifica il suo essere al mondo-.
In definitiva siamo spettatori di una liturgia che celebra il linguaggio, un’esperienza del sacro, che benissimo si accorda nelle intenzioni con quanto dichiarato in un brano di Giorgio Agamben tratto da Il fuoco e il racconto, dove si afferma: - Scrivere significa: contemplare la lingua, e chi non vede e ama la sua lingua, chi non sa compitarne la tenue elegia né percepirne l’inno sommesso, non è uno scrittore…-
L’ora fatta di fresco è arrivata
mentre con le sue dita di fuoco
la luce disegna fra le inferriate
un sorriso che ora si stiracchia
enumerando tutti i momenti
sulla lunghezza della stanza.
In questi versi quello che si avverte a un primissimo impatto è un certo disorientamento, una difficoltà a varcare la porta e procedere spediti, ma a una lettura più rilassata, allentati i cavi che sottendono la comprensione razionale, si staglia una delicata e insieme decisa descrizione di paesaggio familiare, sostenuto da una tensione creativa dentro la quale brucia quel concetto di sacralità della lingua che fa della poesia un rito, una funzione che possiede i crismi della religiosità.
Forse a tratti emerge dal significato duplice di maceria non l’elemento della distruzione ma quello della protezione, della conservazione, insomma una pretesa ecologista in favore della lingua, sentimento di consapevolezza che rende prezioso questo libro pur nella difficoltà probabile del lettore, che invece vorrebbe trovare in superficie un messaggio preconfezionato, direttrici immediatamente riconoscibili e funzionali alla sua attesa.
Le mani hanno rotto il suono
avvertito nel ritmo di un rito
dalla smania accesa della notte
che adesso picchia nella luce.
Sulla farina fine dei muri
l’ansia si concede il tragitto
e indaga un piano inutile
contro i minuti del mattino.
Procedendo nella perlustrazione del libro scopro che Francesco Lorusso ha frequentato il Conservatorio, si è dedicato all’attività di concertista solista e di corista nei teatri lirici, e inoltre che sonda campi sperimentali e di contaminazione tra musica acusmatica e poesia. Ignoravo completamente che la musica acusmatica fosse quella musica di cui non si individua la causa.
Questa nota fornisce ulteriori dettagli di comprensione e apprezzamento di Maceria. Scrive la Candiani: - Esiste la musica. / Esiste proprio, / come lenzuolo lampada / orologio e casa, / come nuvola, / quel suo disumano orto / d’intenzione / di ascoltare l’anima / esiste-…
Siamo dunque qui in presenza di quel disumano orto d’intenzione di ascoltare l’anima, di esplorare attraverso il linguaggio le infinite possibilità che ha l’anima di declinarsi, le molteplici, infinite direzioni che una celebrazione della lingua può prendere in virtù del semplice amore del suono, della segreta musica che ogni parola riesce a distillare e che ogni combinazione di parole possiede la capacità dell’invenzione.
Posto in questi termini, il libro manifesta il suo valore alto di tributo alla bellezza del linguaggio, che, come acutamente avverte il prefatore Giacomo Leronni, “stilla dal personale percorso di ricerca dell’artista e si dispone a dire cose non comuni attraverso vie mai percorse in precedenza”.
Non ha corpo la ferita
il respiro regge i gradini
al possesso minimo dei passi
di una mezza mossa sbagliata
con l’aspettativa troppo breve.
Avverti il rilascio dell’olezzo viziato
adesso che ti richiamano le stanze
verso l’urto freddo della porta con l’aria
quando i tuoi giorni vagano con la notte.
In coda al libro l’autore scrive questa dichiarazione:
- Ma questa ma questa maceria era fatta di pietra “viva” e stava invece nascondendo e componendo il muro di un edificio e di un confine che si stava già nuovamente innalzando e superando -.
Ecco allora che la maceria di cui si parla assume contorni nuovi, non si trattava dunque di distruzione, ma di edificazione fatta con pietra viva, che compone il muro di un nuovo edificio e stabilisce un nuovo confine, quel confine cui la parola aspira, quel limite in cui si può dire che l’ora fatta di fresco è arrivata.