Pubblicato il 19/11/2011 20:33:25
Pensare a me stesso come a qualcosa di diverso da uno scrittore portava a risultati improponibili e considerando che la vita che conducevo era quella che avrei voluto davvero vivere, non esistevano grossi dilemmi su cui mi ero mai arrovellato. Le idee sbocciavano spontaneamente dalle mie mani quasi senza passare dal filtro della mente e fiorivano sui fogli virtuali annaffiate in maniera del tutto automatica come in un perfetto ecosistema emotivo e passionale. Le cadute psicologiche riguardavano la vita in sé per sé, l’inafferrabilità dell’attimo, il mistero che rappresentava la morte e l’angoscia dell’abbandono dei propri amori che prima o poi sarebbe avvenuto per chiunque. Di tutte le pazzie visionarie che si erano affacciate alla mia mente in quegli anni, due erano quelle che avrebbero potuto proseguire l’ideale ricerca letteraria che avevo iniziato a praticare a sedici anni. Una di queste si chiamava l’Epilogo dei tempi, l’altra si chiamava Il capitano Glynk. L’Epilogo dei tempi era lo sviluppo di un inizio di racconto che mi era stato ispirato dal sopraggiungere dell’autunno del 1999. Aveva le caratteristiche fantasy di un testo estremamente malinconico con una grande connotazione dark. Il motivo trainante di tutta l’opera era rappresentato dalla pioggia e dal viaggio attraverso luoghi di pura fantasia compresi all’interno di una vasta terra immaginaria chiamata Esistenza. I protagonisti del viaggio erano un vecchio e una bambina, partiti alla ricerca del terzo personaggio principale, chiamato Ega e inviato direttamente dal destino per portare a termine l’ambizioso progetto di distruggere il tempo. E un vecchio era anche il protagonista dell’altra storia, Il capitano Glynk. Rappresentava la mia visione romantica sulle avventure di un anarchico navigatore di tutti i mari della Terra alla guida del più vecchio e più grande mercantile di tutti i tempi: l’Esperanza. Il mio sogno divenne quello di poter studiare e rappresentare all’interno del testo le leggende di tutti i paesi che avevano per protagonista il mare e rivelare al mondo la vittoria che la fantasia avrà sempre sulla realtà. Centinaia di personaggi estremamente caratterizzati affollarono per mesi la mia mente cercando un ruolo all’interno di una della due storie e per un bel periodo riuscii a mandarle avanti contemporaneamente allungandone pagine a giorni alterni, profondamente più interessato a definire le fattezze del semidemone Plathor o a cercare lo scenario migliore per descrivere la devastante bellezza del Maelstrom che ad occuparmi dei demoni reali della politica o dello spettacolo italiani. Ma accadde qualcosa che non era mai successo se non quando, a tredici anni, cercai di scrivere il mio primo romanzo, anche questo fantasy, dal titolo Chisimaio: arrivato alle soglie della piramide attraverso la quale avveniva il passaggio dal mondo reale a quello fantastico, cominciò a mancarmi o la forza di volontà, o la visione prospettica del finale oppure, molto più semplicemente, la vera e semplice fantasia di proseguire. Se gli altri romanzi erano stati illuminati, ad intermittenza, ora dalle luci del mondo reale, ora da sconosciute fonti di luce provenienti dal fascino dell’irreale, queste storie non avevano alcun attaccamento alla realtà e la spinta che proponevano era oltre un confine più ardito di quello superato persino con la stesura di 5. Per quanto fosse affascinante, ero costretto a rendermi conto che non ero ancora pronto per una cosa del genere e quindi abbandonai a 100 pagine A5 sia l’una sia l’altra storia. La spiegazione più logica che riuscii darmi di quello strano freno che la mia mente aveva posto alla prosecuzione della mia ricerca era che niente di quello che avevo scritto poteva davvero considerarsi pubblicabile. Non lo erano certo le raccolte di poesie che avevo steso fino all’avvento delle mejfy e per quanto innovative non lo erano neppure le ultime raccolte di mejfy. Non era pubblicabile Una di quelle notti, perché era steso con uno stile improponibile ed era pieno delle fesserie che un sedicenne può confondere con trovare geniali e neppure lo era Schizzando nel vento in cui si vedeva chiaramente scritto cazzo. L’opera era l’esperimento illeggibile di una mente malata, Un’estate qui in fondo non era altro che un diario delirante e 5 era troppo grande e presentava difficoltà a cui la mia pigrizia in fatto di organizzazione non mi permetteva neppure di pensare. E poi lo consideravo come il mio asso nella manica, mi sembrava stupido giocarmelo al primo colpo. In tutto avevo avuto contatti con due case editrici: Baldini aveva rifiutato il primo libro, Ladisa il secondo e una copia non arrivò mai a destinazione. Era una copia del secondo a Baldini, inviata per chiudere il cerchio. All'inizio mi sentivo molto motivato. La mia battaglia per venire a galla si era rivelata molto più dura di quello che pensavo a sedici anni. Io guardavo ancora avanti. Però cominciavo a voltarmi indietro. Iniziavo a pensare che forse avrei dovuto accettare di correggere Schizzando nel vento, che forse avrei dovuto continuare a contattare gli editori e non perdere tutto il mio tempo nelle stupide dispute letterarie sui vari siti che avevo frequentato, ad esempio. Il fatto era che la polemica mi eccitava, soprattutto quando partiva da altri e mi riguardava personalmente. Con le case editrici era una cosa a senso unico, non c'era dialogo e quindi possibilità di scontro. Decisi che per ravvivare la giovinezza, dovevo scontrarmi anche con loro, fronte contro fronte. Come gli alci. Iniziai contattando tutte le case editrici il cui nome mi dicesse qualcosa, direttamente da internet, e chiesi loro se accettassero nuove proposte. Tutte si proponevano come la casa editrice diversa, quella che non ti frega e che non vuole spillarti i soldi. Bene. Io soldi non ne avevo. Tutte volevano investire sugli esordienti. Bene. Io ero esordiente. Tutte avevano nuovi metodi di diffusione, non come le grandi case editrici. Bene. Io amavo i nuovi metodi di diffusione. Scrissi a tutte una mail. Nel frattempo andavo su neteditor per vedere che cosa succedeva sul fronte Mejfy. Sempre più messaggi negativi. Mejfy non era un genere. Prima le mie non erano poesie. In conclusione io non scrivevo niente. Mi concentrai sulla mail alle case editrici. Controllavo assiduamente la posta. Certe volte passavo interi pomeriggi saltando da un sito all'altro nella speranza di una singola nuova visita sui miei messaggi e sui miei testi sparsi per la rete. Il lungo silenzio cominciò a intristirmi. Il periodo dei grandi romanzi che mi aveva condotto da Una di quelle notti fino al mio grande capolavoro 5-Il seme di una rivoluzione, sembrava ormai terminato. Quando avevo finito di scrivere 5 e l'avevo consegnato allo scrittore piccolo piccolo, l'unico che aveva letto la mia intera bibliografia, avevo affermato che non sarei mai più riuscito a scrivere niente del genere. Scriveva anche lui. Mi sembrò che avesse capito cosa intendevo.
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