Pubblicato il 15/11/2011 19:06:05
Cadevo dal pullman appena arrivati alla stazione di Barletta per dirigermi verso la coincidenza, osservando finalmente allontanarsi quelle strane forme di vita. Mi prendevo il posto più solitario che ci fosse, ideale se era vuoto tutto il vagone, e correvo col treno fino a Bari, fissando lo sguardo fuori dal finestrino per scorgere il mare che di tanto in tanto si mostrava con l’immortale istinto selvaggio a dispetto delle nostre morenti vite. Appena respirata l’aria di Bari la sensazione di un non prima annunciato prolasso anale prendeva a deformarmi il corpo con una depravazione mai vista. Scendevo i tre gradini del treno entrando in un paradosso esistenziale inestricabile: allungare il passo alla ricerca di un cesso più degno di quelli del treno avrebbe significato fare il gioco della peristalsi, ma passeggiare con moderazione con un parto imminente tra le gambe non era in alcun modo possibile. Sceglievo sempre di correre verso un cesso. A volte i disonorevoli crampi mi stringevano lo stomaco in maniera atroce. Sudavo freddo, vedevo la città tenermi gli occhi addosso e mi perdevo nella mia disperazione. Facce, capelli al vento, ombrelli portati non si sa mai, biglietti del treno per strada, mendicanti e cerca sigarette, tutto lo scenario attorno si diluiva in un vortice opprimente che mi intimava a mantenere il contegno, ma il corpo mi suggeriva con un sussurro rauco di rompere gli argini e abbassarmi i pantaloni senza alcun ritegno. Mi piegavo su me stesso agli angoli dei palazzi. Stringevo il culo, così si dice, strizzando gli occhi. Poi passava, ma dal petto in giù tutto brontolava. Riprendevo il passo fingendo serietà. Mi veniva da ridere, ma non c’era niente per cui farlo. Le distanze erano sempre insuperabili, ossessive, che decidessi di tirare dritto verso l’Ateneo o che scegliessi di fare tappa nel paradiso dei culi al McDonald. E poi divoravo le scale, pregavo che non ci fosse nessuno in attesa e irrompevo nelle piccole stanze con la certezza che avrei dato il giusto spessore ad un cesso di città. Ecco, ecco, cosa siamo. Non le aziende, né gli Atenei e nemmeno le cattedrali saranno i miei templi. Questo è il mio altare e questa la sacra funzione, i cessi di tutto il mondo raccolgono ogni mia vocazione! Ogni mattina tutte queste sofferenze per ficcarmi in una classe quanto quella di un liceo in compagnia di altre duecento persone. Adesso andavo all'università. Lettere moderne per la precisione. Prima ora di lezione: latino, aula cinque. C’era gente davanti alla porta, gente spalmata sui muri come carta da parati, gente accampata sotto la cattedra. Tutti fingevano di essere estremamente interessati a come Cicerone pronunciasse la C. Io avevo sonno. Il professore se ne stava con una mano nell’altra poggiate sulla cattedra, felice del suo sapere e dell’orda di ignoranti prostrata ai suoi piedi. Ricamava elogi al latino, si beava dei dettagli di pronuncia e specificava che anche se era un corso di lettere moderne era imprescindibile la conoscenza della sua materia. Ognuno voleva la sua importanza. Avevo scelto quel corso proprio perché prevedeva un solo esame di latino. Non è che lo odiassi o lo reputassi inutile. Non mi andava di studiarlo e, della vita, mi piaceva troppo la possibilità che si potesse scegliere. Finita la lezione, verso le nove meno dieci, avrei dovuto vagare per l’università o per Bari fino a mezzogiorno in cerca di qualcosa da fare, in attesa della seconda ora di lezione. Cominciavo ad entrare e uscire dall’Università. Fumavo, andavo a controllare se lo stronzo era andato giù. Fumavo, andavo alla stazione cercando un treno per tornare a casa, fumavo, tornavo all’università. Fumavo, facevo colazione per la seconda volta, fumavo, arrivavano le undici e un quarto e raggiungevo l’aula dove ci sarebbe stata la seconda lezione di italiano o inglese. Finì che cominciavo a tornare a casa direttamente alle nove, dopo la prima ora di lezione, andandomene contro il flusso di gente che era appena arrivata dalla stazione. E sul treno scrivevo fantastiche poesie sul taccuino su cui avrei dovuto prendere appunti. Costruivo dei piccoli rifugi di carta e lì mi rintanavo, aspettando che il mondo imparasse a comprendermi o decidesse almeno di lasciarmi perdere. Cercavo ancora le fruste degli dei. E credevo che in un posto come l’università le avrei trovate. E di esserci, c’erano, ma servivano al altri scopi. Non ad ammaestrare mostri mentali, ma a schiaffeggiare qualsiasi idea altrui, ad impartire la perfezione matematica del verbo. Le fruste erano rivolte contro di me. Avrei potuto aspettare il momento buono per sottrarle e usarle ai miei scopi, ma a quell’epoca mi sembrò che ci volessero troppi anni. Così cambiai definitivamente corso di studi. Scelsi il più semplice, il meno impegnativo e forse anche il meno interessante: scienze dell’educazione. Bella roba. Decretai, in quei tempi, che nessun editore avrebbe più visto il mio nome steso su un manoscritto sulla sua scrivania. Mi concentrai sullo scrivere. - Concentrati, concentrati - mi dicevo. Non guardavo mai al rigo appena scritto, ma pensavo al successivo. Quando scrivevo. Quando non scrivevo, mi soffermavo spesso ad inseguire i mondi immaginari che si svelavano agli occhi della mia mente e saltavo da un pianeta a un altro cercando di vedere quanta più roba possibile. Gli abissi tra i pianeti non mi facevano paura. Credevo che ci non sarei mai caduto. E così accadde per anni. Ogni qualvolta la vita mi stancava, come nei tristi giorni universitari, ricorrevo alle mie pagine, alle cose scritte nel passato, anche in quello più remoto, i testi originali delle poesie e dei racconti e le prime versioni stampate dei romanzi. Col tempo gli zaini che li contenevano erano diventati due. Fuggivo a leggere le mie pagine per ricordare a me stesso cosa ero. Ne avevo bisogno continuamente perché avevo il terrore di dimenticarlo. La stessa cosa facevo nel contesto letterario: passavo dalla poesia alla prosa ogni volta che qualcosa di scritto mi deludeva. - Sono un poeta – mi dicevo, finché le poesie lette e rilette non si consumavano – No, no, sono uno scrittore – e correvo a rifugiarmi tra i romanzi e i racconti. Alle volte abbandonavo la poesia per tessere gli scenari delle mie storie e quando cominciavano a sembrarmi stupidi, mi facevo più effimero e raffinato andando a ricamare versi. - Nessuno mi può capire – pensavo – Nemmeno io. In quel primo periodo universitario scrissi una serie di testi in versi che facevano meno schifo del solito. Avendo ormai bandito gli editori e non avendo che pochi lettori tra i miei amici, tra cui la ragazza che amavo troppo assai, compresi che dovevo cercare delle nuove strade per diffondere il mio disarticolato verbo. Mi lanciai su internet, lì si trovava la risposta a qualunque domanda. Cominciai a chiedere. Ma le risposte arrivarono molto lentamente. La mia connessione a 56k non era delle più veloci. Un minimo di coerenza. Presentarsi come un poeta. Rivoluzionario. Anzi no. Più facile sarebbe stato colpire con frasi ad effetto stese in struggenti poesie d'amore. Mmm. Sembrava avessi un enorme rotolo di carta bianca su cui poter scrivere esattamente quello che volevo, messo in bella vista per tutti gli utenti internettiani che sarebbero passati da LetterArea, il primo sito che trovai e che mi sembrava ben fatto. Sì, però un minimo di coerenza, non come al solito. Decisi semplicemente di pubblicare le ultime cose che avevo scritto. Erano tremendamente ben fatte, riguardavano il mio primo periodo universitario, la riluttanza all'essere erudito da qualche borioso professore mummificato, la voglia di riprendere le vie delle mie terrazze solitarie, dei miei campi aperti. Bene bene. Pubblicai il tutto e stetti a guardare, ma non succedeva niente. Mi annoiai nell'attesa, sbadigliai. Andai a cenare. Nei giorni successivi arrivò il primo commento. Era positivo. Era dello stesso curatore del sito. Mi piacque, decisi di pubblicare ancora. Pubblicai ancora, ma la poesia non era particolarmente seguita. Decisi di scrivere un racconto, in alternativa avevo solo romanzi, ma di romanzi non volevo più sentire parlare. E poi erano troppo lunghi per essere seguiti in rete. Scrissi il racconto in un pomeriggio, lo inviai. Si chiamava La passeggiata e non era il massimo, però poteva andare. Il giorno seguente fioccarono i commenti. Due, tre, quattro. Mi fregai le mani e andai a leggerli, ma c'era qualcosa che non andava: erano negativi. Mi dissi - Fermo, fermo, rileggi bene, magari oggi sei un po' dislessico -. Lessi ancora. Erano sempre negativi. Mi guardai attorno. Andai a cercare tutti i personaggi che mi avevano commentato e lessi la loro roba. Faceva un po' cacare. Glielo feci notare. Pubblicai ancora pensando - Adesso li ho sistemati - ma sembrava non ci fosse altra gente a parte quei quattro ammazzasogni. Tornarono alla carica e mi affossarono di botte letterarie. Pensai se pubblicare ancora, nel frattempo non avevo niente di nuovo, scelsi tra la roba vecchia. La cosa cominciò ad infastidirmi: stavolta zero commenti. Decisi che se tutto doveva essere così patetico, allora sarebbe stato meglio non pubblicare e così dopo tre testi abbandonai il sito, pensai che tanto ce n'erano altri e andai a cercarmeli. Finii su Liberodiscrivere, ripubblicai gli stessi testi per vedere se qui qualcuno ne capisse di più, di poesia e racconti, ma dopo il primo commento positivo, ripresero a tartassarmi nuovamente. Mi accusavano di non avere stile, di non seguire la metrica, di non impegnarmi ad incastrare rime, di essere volgare eccetera eccetera. Il commento positivo fu - Mi spiace, ma devo dirtelo: questa per me non è poesia -. La positività stava nel fatto che gli dispiaceva. Mi alterai alquanto e andai a trovare anche questi altri personaggi, lessi la loro roba. Faceva cacare persino gli stitici. Glielo feci notare. E si permettevano di fare tanto i sofisticati con la roba altrui? Come funzionava? Il giorno dopo nella mia casella di posta c'era un messaggio. Anonimo. Di un ragazzo che aveva letto una mia poesia che si chiamava Serenità del non capirsi. Era una lunga lettera in cui diceva che ero riuscito a rendere perfettamente quello che lui aveva sempre provato. Mi ringraziava per la poesia. L'aveva chiamata proprio così. Mi incitava a continuare a scrivere. Più che il commento mi piacque il fatto che il messaggio era stato spedito alla mia casella di posta, il che rese tutto più intimo tra me e lui, tra me e il primo lettore sconosciuto che mi aveva compreso. Fui così contento che decisi che Serenità del non capirsi fosse la mia più bella poesia e che io non volevo più essere uno scrittore, ma un poeta. E gli altri non potevano capire.
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