Personalmente è sempre un piacere poter parlare della poesia di Domenico Cipriano e della sua figura, sempre così ricca di grazia, attenzione e ascolto nei confronti del mondo. Carattere di uomo prima ancora che di autore che poi con determinazione e cura profonda ritroviamo compiutamente intatta nei suoi versi. Un’anima armonicamente musicale nello specchio a risalire anche dall’altro versante della sua espressione artistica, quello della musica appunto guidando nell’incontro con la poesia la formazione “e.Versi jazz-poetry”. Cinquantenne irpino con alle spalle oltre diverse pubblicazioni anche riconoscimenti importanti (come il “Lerici-Pea” per l’inedito nel 1999 o il “Camaiore” opera prima), si impone come una delle personalità, degli intellettuali più penetranti di quel meridione d’Italia sempre così attento nelle sue rivendicazioni e nelle sue interrogazioni a ricordare di uomini e territori le antiche istanze e le nuove urgenze, le passioni e i deragliamenti. In quest’ultimo volume, che raccoglie una sorte d’antologia della sua poesia è possibile allora fare i conti con un percorso in cui nella trasfigurazione accesa di uomini e mondi, la terra più concretamente si dilata e si avverte in un respiro in cui nulla si cancella ma tutto ritorna più alto, e aderentemente attivo nella rispondenza delle sue proposizioni e delle sue memorie. Più alto perché desideri e volti, incontri e passaggi vanno a levarsi in quella rete di circolarità che dice della carne l’ingiunzione, lo sforzo allora in quello spazio mai separato del paesaggio che fa di quelle montagne, da quegli affacci luogo e ritratto- autoritratto diremmo- di un reciproca corrispondenza, di un cercato e partecipato compendio. Di qui allora nasce e si sviluppa il canto nella consapevolezza di una narrazione in cui tutto ha presa nella resa di un continuo specchiarsi, di un amalgamarsi di riflessioni, forme, note di una innamorata e per certi versi contrastata incarnazione. La storia allora è quella- anche- di uno spazio segnato da obbligati abbandoni, di emigrazione soprattutto e di lontananze sapientemente riportate nella dilatata tensione non solo di chi forzatamente è dovuto partire ma soprattutto di chi dolentemente si è trovato a restare nella mutilazione delle spaccature. Eppure, ed è questo che ci rende particolarmente cara questa poesia, il tono mai severo mai eccessivamente grave è quello di una gioiosa partecipazione, di un incantato richiamo. Ancestrale e insieme eticamente e civilmente presente tra le maglie di una contemporaneità provata, la forza è nel dialogo tra le zolle di una reimpastata e non più remota fioritura di materne e paterne pronunce, di materni e paterni motivi e una modernità non dimentica nella complessità delle sue ascendenti strutture. Esemplare e classica insieme dunque la scrittura di Cipriano, forma di un versificare acceso a fronte delle cancellazioni e delle negazioni di un’epoca che non chiede, che non domanda, ha nella continuità della vita il suo più semplice e penetrante richiamo, in una cura, in una custodia mai lasciata sola perché non scontata. Così se nel libro d’esordio “Il continente perso” (Fermenti, 2000) il ritorno è quello di un territorio nella lunghezza dei suoi lunghi inverni in cui la natura cerca di ricomporre le sue desolazioni (come nella bellissima immagine dopo la neve della “piazza spopolata” in cui è possibile veder “rivivere morti/richiamati dal mitigante/suono dei passeri rinati”) - gli abitanti come sospesi in una esistenza “senza sogni, né speranza di cambiare”- nel successivo “Novembre” ( Transeuropa, 2010) l’attenzione a ciò che di illeso rischia di esser sottoposto alla maceria e all’incuria si fa doloroso recupero e memoria dell’evento cardine del terremoto tragico di parte della Campania e soprattutto della sua Irpinia del 1980. Nel resoconto lirico dell’opera (scritta esattamente a trent’anni di distanza) Cipriano ci offre nella testimonianza forte e concreta del sé bambino (all’epoca appena decenne) la cronaca oltre che di una tragedia che ebbe a colpire e mobilitare un intero paese (con la nascita stessa della protezione civile) quella di una incuria appunto e poca salvaguardia del territorio che poi a più riprese, dall’Abruzzo ed anche dopo la pubblicazione dello stesso libro avrebbe colpito ancora e altrove nei sisma seguenti (in ultimo l’Abruzzo, Amatrice). Come ebbi modo di scrivere all’uscita del libro in questo testo “ la sua voce di uomo, prima che di poeta, di bambino ha raccolto per quanto possibile la polvere, l’ha divisa da quanto rimane di vivo e di profondo nella radice che non si è spezzata provando a liberare finalmente quel respiro allora tanto desiderato (e che possiamo ritrovare nella stessa architettura del poemetto come a sigillo, nel sangue, di una comunità tragicamente ferita)”. Così nell’ascolto derivante dall’osservazione muta del poeta e del bambino insieme Cipriano ha saputo qui illuminare e dar nuova voce ai racconti a risalire dalle rovine delle case e delle anime sottolineandone dalle ferite le ragioni in una impronta etica e di scrittura che ha germe scoperto nel verso rivelatorio della sua metabolizzata strutturazione “.. e io ero la coperta di lana, i racconti cambiati e ripetuti..”. Il tutto ancora nel riconteggio degli uomini e delle cose, degli elementi di una terra cancellata a dire nella determinazione civile, ma anche nella dolcezza (“..il silenzio del palmo copre gli occhi ai morti”), la consapevolezza di una storia che va comunque affrontata(“..il confine è già segnato/ e nulla ti porta indietro”, “Questa sera ceniamo con la morte..) e perseguita a partire dal suo racconto. Soprattutto allora nella convinzione di una interrogazione, a cui ci richiama- e che ha nella forza civile del prologo il suo orizzonte- che rifugge dalla ineluttabilità degli eventi. Orizzonte e presenza che è poi al centro dei lavori successivi nel richiamo alla cerchia familiare degli affetti, delle nascite (la cara figlia Sofia), dei legami cari cui rinsaldare la terra e rinsaldarsi alla terra. Così ne “Il centro del mondo” (Transeuropa, 2014) in cui nella risonanza sovente anche metafisica (vedi tra le altre l’omonima sezione, “Irpinia metafisica”) tra luoghi e anime, tra presenze di una natura agli occhi luminosa nel ricordarci di esser sempre nuovo mondo e nuova esistenza nella rinominazione stessa della parola e pareti di intimità non più raggrumata nel sogno ma nel ritaglio di un confine non più cosi netto nelle sue divisioni, l’autore di Guardia dei Lombardi con serena determinazione sa rafforzare del presente l’edificio, il senso stesso d’esser comunità lasciando in piedi le fondamenta, rinnovandone i mattoni nella trasformazione dei passi in altri luoghi (di riflessione, di indagine, di intelligenza e d’amore anche) al mutare dei contorni. Così nella più che simbolica “La nostra casa sta cambiando” o in “Origine” (“L’arcolaio”, 2017) l’ultimo libro in cui la domanda dell’uomo a risalire dalla memoria del cosmo di cui è grazia e frammento investe la capacità stessa di sapersi tramandare in un “legame duraturo” nella tenerezza allora a cercare di compensare almeno se non di comprendere “l’angoscia/la distanza sconfinata delle stelle”. Un percorso in conclusione che più che vivamente consigliamo e che andiamo a ringraziare augurando il bene e la fortuna critica che merita.