La silloge “L’ora di Pascoli” di Massimo Parolini è in realtà un long poem deliberatamente articolato in una serie di brevi composizioni-frammenti che sviluppandosi e intersecandosi fra di loro generano un intreccio essenzialmente onirico che ha come protagonista la figura di Giovanni Pascoli. In effetti il poema è costruito partendo da rilevanti citazioni e prestiti da testi pascoliani che vengono interpolati e sviluppati da versi originali con la paternità di Parolini i quali entrano in punta di piedi, quasi come voce fuori campo o esegesi in versi delle composizioni pascoliane che restano il filo conduttore dominante: c’è una logica di servizio alla tradizione poetica che emerge con evidenza e che non è se non encomiabile, soprattutto in tempi come i nostri in cui il narcisismo poetico spesso tocca livelli imbarazzanti e autolesivi. Qui invece l’autore (Parolini) preferisce fungere da regista quasi in ombra, senza protagonismi confermati anche dallo spirito di collaborazione evidente da cui quest’opera letteraria nasce.
Il libro è a tutti gli effetti un lavoro collettivo che vede coinvolti oltre a Parolini una seconda poeta e un artista figurativo. Il libro unisce ai versi di Parolini testi in traduzione in lingua inglese a cura della storica dell’arte Francesca Diano, studiosa di folklore e tradizioni orali irlandesi, oltre che traduttrice abituale di testi letterari e poetici del mondo anglofono, la quale svolge un’azione pregevole di versione poetica con difficoltà e asperità non comuni (si pensi in particolare alle onomatopee e ai termini gergali spesso impiegati da Pascoli e ricalcati da Parolini consapevolmente nel testo), e i disegni dell’artista Pietro Verdini, che si caratterizzano per un’atmosfera onirica e a tratti fiabesca che si combinano perfettamente al milieu dei versi di Parolini e di Pascoli: la prevalenza degli elementi cromatici in blu e in nero ci ricordano in particolare quelle “voci di tenebra azzurra” così care al Pascoli, voci che, nella sua celebre poesia “La mia sera”, alludono appunto al bisogno di ricongiunzione con la figura materna, alla regressione infantile, alla culla.
L’idea che sta alla base del poema è infatti la riunione del nido pascoliano, figura dominante della poesia di Zvanì, con una sorta di incantesimo o esperimento di viaggio nel tempo grazie al quale i membri della famiglia pascoliana, divisi dalla serie di eventi tragici e violenti ben noti che porterà molti di loro alla morte in giovane età, possono finalmente ricongiungersi sotto lo stesso tetto, attorno alla tavola imbandita che li accoglie finalmente uniti e pacificati, perché in definitiva “il sogno è l’infinita ombra del Vero”. È un viaggio onirico, possibile grazie alla facoltà incantatoria del verso, quello che ci viene prospettato da Parolini, con evidente violazione di qualunque nesso causale di tipo spazio-temporale, in uno di quei prodigi che solo la poesia può permettere. Qui trovano casa tutti gli elementi distintivi e caratteristici del mondo pascoliano (dai versi onomatopeici degli uccelli alle ambientazioni appenniniche e montane, dal mito del desco a quello del focolare domestico, dal rito della tessitura a quello della buona cucina romagnola con i suoi passatelli in brodo, la presenza partecipe della natura in tutte le sue forme animali e vegetali) combinati in un gioco verbale di citazioni e di incastri, quasi di cortocircuiti semantici che consentono che tutto questo avvenga. Ma non c’è solo il Pascoli domestico e familiare, quello più noto agli studenti, come avviene per la naturale impostazione dei corsi di letteratura a scuola, sia essa la scuola primaria o superiore, ma c’è anche il Pascoli poeta cosmico, quello del “cupo vortice di mondi”, della “profondità dell’infinito abisso” che ci inghiotte, con i suoi versi che ci ricordano come l’uomo sia un’entità trascurabile, addirittura irrilevante, rispetto alla vastità dell’universo, alla moltitudine delle galassie, alle regole ignote che presiedono alla combinazione e ricombinazione degli atomi. La ricongiunzione del nido pascoliano con i suoi componenti nella forma di spettri, che solo per la loro presenza fantasmatica possono fra di loro comunicare e finalmente intendersi, è, da un lato allusa come esperienza onirica, dall’altro come una sorta di incantesimo-esperimento a cui sottendono anche basi di tipo scientifico, il che porta Parolini a legare Pascoli a altre figure come Padre Ernetti, Turing, Fermi, Maiorana, anch’esse a vario titolo esploratrici della reale natura del tempo e del cosmo e delle relazioni che lo connettono alla realtà così come la percepiamo. I versi di Pascoli diventano così parole “in viaggio” “come foglie e farfalle, / fra onde chiare e onde scure / in ammassi galassie.” Il segreto che sta alla base della ricongiunzione è la forza del ricordo, la capacità riparatrice della memoria, il cemento coesivo degli affetti di chi si ama veramente: solo così si fa luce “nella penombra della propria vita”.
A Parolini, come un esegeta alchemico della parola pascoliana, spetta nel suo poema riunire ciò che si è disperso, rabberciare le faglie che dividono fra di loro i mondi, ritrovare il nesso fra gli affetti che innaturalmente sono stati costretti a dividersi e quindi ricostituire “la traccia infuocata della tua [riferito a Pascoli] poesia”. Non è quindi un’operazione nostalgica o un esercizio di stile che anima questa impresa poetica ma si tratta di ritrovare l’amuleto montaliano per arginare il vuoto che grava sulle vite “senza più alito, senza più peso”, strappate al loro “nido di musco”, rimedio affinché “ogni membro si unisc[a] / col suo ramo nel canto”. Da qui il monito finale, con cui si chiude il libro, di una sobrietà disarmante, ma lucida:
Sogniamo insieme.
Amiamoci. Non c’è altro
al mondo, Tutto il resto
è silenzio.
e, in contrappasso con Verlaine, pure lui molto amato da Pascoli, è proprio per questo che serve la letteratura (quella vera, non quella della falsa arte poetica).