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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte 2

di Stefano Saccinto
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Pubblicato il 08/11/2011 10:29:44

Una di quelle notti


Io mi sentivo il più grande scrittore vivente. Ma gli addetti ai lavori non potevano saperlo.
Il mondo dell'editoria, Jack London lo definiva il meccanismo. Diceva che era inaccessibile, qualunque scritto di qualunque livello gli si mandasse contro per scalfirlo. Ciò che poteva indebolirlo era la tenacia, costante, nel tempo. Colpire sempre nello stesso punto, ad oltranza. La tenacia non era per me. Io mi scocciavo come niente. Al primo sentore che le cose potessero farsi difficili, mi affascinava troppo l’idea di rinunciare. Non sapevo come avessero fatto tutti quegli uomini un tempo ad avere la pazienza di progettare enormi edifici e portare avanti fino in fondo il loro compito. Per me era una cosa da pazzi. Vivere doveva essere una cosa molto più semplice, ma nessuno lo sapeva.
Non lo sapeva neppure la Baldini&Castoldi che aveva da poco pubblicato il bestseller Jack Frusciante è uscito dal gruppo di uno scrittore di ventuno anni definendolo uno scrittore giovanissimo. Io avevo sedici anni e avevo steso una storia migliore della sua. Ma faceva per davvero schifo il modo in cui era scritta. Io ero l’enfant prodige, ma potevo, a una svista, passare per un semplice poppante. Esprimevo concetti geniali con un idioma incomprensibile che sembrava non voler dire nulla. Ci voleva un’enorme pazienza con me. Ma non ce l’avevo neanch’io. Inviai loro il mio primo testo. Finii nelle spire di un intellettualissimo concorso letterario senza neanche accorgermene. Pensavo che la giovane età mi avesse reso l’inaspettata grazia.
La vita andava così, ma io non me ne curavo. L’ossessione della pubblicazione era ancora agli albori, i giri immensi che andavano praticati prima di essere presi almeno in falsa considerazione non potevo conoscerli. Per questo non mi accanivo. Per Una di quelle notti avevo contattato quella sola casa editrice. L’insindacabile giudizio sulle mie capacità l’avevo affidato a lei, convinto che mi avrebbe riconosciuto per quello che sentivo di essere. Il contatto con questa gente fu un vero caso. Il giorno che chiamai la Mondadori e mi dissero che non accettavano nuove proposte, pensai che in Italia non fosse più possibile pubblicare libri. Scesi da casa e decisi di farmi una passeggiata per rimuginarci su e vedere il da farsi. Finii fermo a pensare davanti a un'edicola e, sovrappensiero, colsi il nuovo capolavoro di Brizzi. A lui la sua storia di amore adolescenziale l'avevano pubblicata. Entrai nell'edicola e raccolsi il libro. Andai dritto all'ultima pagina: Baldini&Castoldi, via Crocefisso 21, Milano.
Mi fiondai a casa a chiamare il centralino.
- Pronto? Volevo il numero della Baldini&Castoldi. Sì, è una casa editrice – cominciai a vergognarmi come se potessero vedermi attraverso il filo. Attesi in linea e mi fornirono il numero. Balbettai un saluto e chiamai la casa editrice con la stessa segretezza di quando si sta commettendo un reato.
- Pronto? Sì, no, è che ho scritto un libro e volevo farlo vedere... se era possibile.
- Per il concorso Linus?
- Come? Ma è la Baldini? - avevo già avuto problemi con un paio di Mondadori prima di beccare quello giusto.
- Sì, sì. Lei come si chiama?
Comunicai il mio nome.
- Data di nascita?
Comunicai la data bisbigliando. Al terzo – Come? - decisi di alzare un po' la voce, fino a farla diventare almeno percettibile.
- Ah, sei giovanissimo – te ne sei accorta, eh? Come minimo sei laureata – Come si chiama il libro?
Il titolo era un problema. Aspettai fino all'ultimo secondo nella speranza che mi venisse in mente un'idea in extremis. Non mi venne niente.
- Una di quelle notti – brontolai.
- Allora lo inserisco nel concorso Linus – io di Linus ne conoscevo due, ma mi sembrò di intuire che non si riferisse a loro. Pensai - Guarda, se sei bella, puoi comodamente inserirlo dove vuoi – e le dissi ok soffermandomi a pensare se non fossi risultato stupido ad usare l'anglicismo. Fu così che entrai nel labirinto del concorso.
A quell'epoca conoscevo solo la Mondadori, la Fabbri editore, la DeAgostini e qualche altra casa editrice che sentivo nominare in Tv e credevo che queste fossero case editrici e che lavorassero per proposte che venivano valutate. Non sapevo che quelle erano case editrici da edicola, pubblicavano solo bestseller o testi classici e collezioni per adornare le librerie esposte ai visitatori. Le vere sfide letterarie si svolgevano da qualche altra parte, ma non potevo sapere dove. Le grandi case editrici intervenivano a cose fatte, mettevano il marchio, invadevano le librerie e incassavano a colpo sicuro. Oriana Fallaci poteva alzarsi la mattina, scrivere una cazzata come distribuire rimasugli di merda sulla carta igienica e tornare alla sua catalessi. Intorno a lei tutto si sarebbe mosso al meglio per rimarcare la sua investitura di grande scrittrice. Tutti erano felici così. E per me non c’era neanche la possibilità di accennare a quello che avevo scritto.
Nei mesi successivi all'invio del libro cominciai a convincermi che il mio sogno di esplodere nel cielo letterario stesse per farsi reale. Non come quando a dodici anni ero convinto che sarei diventato un calciatore. Una grande casa editrice aveva il mio libro. Era fatta. Adesso dovevo solo scrivere, scrivere, scrivere. Calcolando i sei mesi che sarebbero passati, mi venne la convinzione che a giugno di quell'anno il testo sarebbe stato pubblicato, conquistando il posto nella storia che avevo sempre sognato. Un mio amico, anche lui scrittore, un tipo piccolo piccolo, in fatto di pubblicazioni ne sapeva parecchio. Mi aveva raccontato che quando le case editrici scoprivano uno scrittore, mandavano degli uomini in giacca, cravatta e occhiali da sole a prelevarlo dovunque fosse, per portarlo nei loro uffici segreti a firmare un contratto e a revisionare con loro il testo prima di pubblicarlo. Lui diceva che non venisse avvisata neppure la famiglia.
Io mi sentivo pronto a scomparire. Scomparire era la mia vocazione. Presi a scrutare la porta della nostra classe ogni volta che qualcosa andava storto durante la giornata a scuola e quando qualcuno di inaspettato bussava, in coincidenza con i miei malumori, speravo sempre che fossero gli uomini con gli occhiali da sole che venissero a prendermi. I mesi passavano senza che si facessero vedere, ma forse non riuscivano a scovarmi. Cominciai allora a soffermarmi sulla cassetta della posta ogni giorno al rientro da scuola. La guardavo e sì, ma non c'era niente. Eppure il mio indirizzo ce l'avevano, era proprio necessario cogliermi di sorpresa quando potevano semplicemente comunicarmi che il libro era piaciuto?
La verità era così chiara da apparire assolutamente inaccettabile e più assurda dei racconti del mio amico: si erano fatti delle risate antologiche a leggere il modo osceno in cui Una di quelle notti era steso. Quando li chiamai mi sembrò che dall'altra parte della cornetta la ragazza continuasse a soffocare le risa. Magari il testo faceva così ridere che l'avevano fatto leggere a tutti nella redazione. Doveva essere diventato il fesso nel villaggio dei libri. Mi dissero che era stato scartato. Ma almeno sembrava avessero avuto lo stomaco di leggerlo per intero.


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