Tabucchi, in “Gli archivi di Macao”, rivolgendosi al padre scrive: Mi rendo conto che non si deve scrivere ai morti, ma tu sai perfettamente che in certi casi scrivere ai morti è una scusa, è un elementare fatto freudiano, perché è la maniera più rapida di scrivere a noi stessi, e dunque scusami, sto scrivendo a me stesso, anche se forse invece sto scrivendo alla tua memoria che ho dentro di me, alla tua traccia che hai lasciato dentro di me, e dunque in qualche modo ti sto scrivendo davvero. E scrivere dei morti è ciò che fa l’autrice di questa trilogia dal magico titolo di “Aqua Mater”.
Nella prima parte, quella che dà il titolo all’opera, i morti sono una misteriosa madre e un padre fuggiasco, che staccandosi dalla figlia ne uccidono l’infanzia, lasciandola sola a percorrere la vita con un elemento “defunto” dentro di sé. E questo elemento è reso invisibile allo sguardo interiore da una impenetrabile cortina costruita dall’oblio. Su questo punto la Castellazzo gioca a fare un po’ la sciamana e mischia riti tribali, magia nera locale e un pizzico di psicologia. Siccome si sa che le personalità scisse, ad un certo punto del loro percorso, perdono per strada qualcosa, ecco che la protagonista perde completamente la memoria, e ci vorrà un certo impegno per ricongiungere tutte le parti celate nella mente della donna. Nel percorso di recupero della memoria riaffioreranno anche parti poco gradevoli e un terribile segreto. Questo primo racconto è, dunque, tracciato su un duplice binario, quello dei segreti celati nella memoria della donna e quello della singolare esistenza dello psichiatra che la aiuta nelle ricerche; le pagine si colorano a tratti di giallo e di racconto noir.
Nel secondo racconto, “Chi è uguale a Dio”, assistiamo a misteriosi incontri che la protagonista, Andrea, fa nel corso degli anni in situazioni che dal reale trascolorano nell’onirico. Qua è più evidente l’effetto di incontro coi morti, Andrea, infatti, viene in contatto con i suoi elementi interni sotto forma di personaggi del passato: un eterogeneo gruppetto che vede tra i suoi membri un mendicante, una Squaw, un capitano di Ventura e altre proiezioni di un animo romanzesco. Ciascuno dei personaggi incontrati darà ad Andrea degli insegnamenti preziosi su come affrontare la vita. E tra le righe si fa strada la risposta alla domanda posta come titolo del capitolo: (forse) Dio siamo ciascuno di noi, con il nostro potere demiurgico nel costruire e modellare la nostra vita. E questo è uno dei tratti che accomuna un po’ tutti gli scrittori: essere creatori di mondi, di esseri umani e di situazioni; per Proust chi scrive, come chi sogna, tiene davanti a sé, in ordine, tutti i mondi e i personaggi possibili.
Col terzo racconto, Il pozzo di Nora, si ritorna decisamente al tema inziale, la protagonista tenta il suicidio e viene salvata priva della memoria. Dovrà fare un lungo percorso riabilitativo che le consentirà di rimettere in ordine i suoi ricordi e lasciar affiorare quanto era chiuso dietro una porta sigillata della sua memoria. In questo racconto sembra di vivere una sorta di sospensione, qualcosa in attesa di compiersi e che resta in sospeso fino a che tutti i tasselli della vita di Nora siano andati al loro esatto posto. La vita di Nora è narrata in modo molto accurato, con continui flashback che illustrano al lettore tutto ciò che ha causato lo stato di perdita di memoria e le motivazioni che, in modo ciclico, portano allo stesso gesto.
I tre racconti sono ricchissimi di elementi simbolici, con la loro forza creatrice e disgregante nei confronti della personalità. L’acqua, fortemente evocata nel titolo e molto presente nei racconti dispari, è madre, non dell’atto della nascita, ma del momento della rinascita (e della morte), quindi è ‘mater’ dell’essere nuovo portatore dell’ambivalenza ricordo-oblio. Ed è mater pronta a riaccogliere fra le sue braccia la figlia nel momento della caduta. Una trilogia dalla forte connotazione femminile, che, tuttavia, va al di là del genere in quanto portatrice del particolare tratto femminile presente in ciascuno di noi, cioè la predisposizione all’accoglienza. Si accoglie la vita priva dei ricordi e si riaccolgono i ricordi quando essi fanno ritorno, gioiosi o sgradevoli che siano. Andrea è una madre accogliente verso i parti della sua mente e dei suoi ricordi, li cresce e li dà alla luce, ne trattiene una parte e li lascia al loro destino. La Castellazzo sembra dire ai suoi personaggi, sempre con Tabucchi, come si sentì dire Pereira: La smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro. Ma l’autrice sottolinea, con ampi gesti, che il futuro è tale solo se nutrito dal passato, dai ricordi, dal tempo passato; anche se nei casi delle protagoniste della trilogia, almeno per due, non vi è il dolce sollievo dell’agnizione della memoria involontaria, non c’è la mattonella instabile proustiana a ricreare il passato, c’è invece un amarissima tazza di tè in cui è infuso il dolore di una perdita, e vi galleggiano frammenti di ricordi angoscianti.
I tre racconti sono narrati con estrema originalità dall’autrice, il linguaggio è misurato e sempre puntuale. Le storie, che ho schematizzato in queste poche righe, sono molto più ricche ed articolate, l’autrice si prende tutta la calma per arredare le stanze narrative con garbo e precisione. Dalle righe, a tratti, trapela un grande amore per la lettura in primis e, soprattutto, una solida preparazione nello scrivere. L’originalità delle storie è sorretta da una mano capace, che non si accontenta di esprimere il proprio pensiero, o di stupire il lettore, ma con una forza generatrice, perfettamente equilibrata, crea tre brevi racconti estremamente ben fatti. Chiudo con una riga di Céline, da “Viaggio al termine della notte”, che mi è tornata alla mente dopo aver chiuso il libro della Castellazzo: E dove andar fuori, ve lo chiedo, quando uno non ha più dentro una quantità sufficiente di delirio? La verità, è un’agonia che non finisce mai.