Seguendo La linea dei passi
La linea dei passi di Enzo Rega, è sì un diario di viaggio nelle città ma anche nella letteratura e nell’antropologia, nel senso di un discorso intorno all’uomo. Come ogni viaggio che si rispetti, comincia con un’immagine metaforica: l’attraversamento di un ponte (velata allusione al celebre racconto di Kafka?), seguita subito dopo dal rito di iniziazione per eccellenza: il primo frutto dell’amore carnale.
La migrazione dell’incipit è quella dal paese alla città, di cui in lontananza si vedono le luci e verso cui ci si mette in cammino con frenesia di passi. E così l’insidia di atri mondi si fa incedere spaesato nell’esistenza, interrogazione perpetua che diventa lirica, lì dove la parola scivola sul crinale più scosceso e vertiginoso. L’incompiutezza del dire diventa l’immagine di una vita, ahimè, sempre al di qua della soglia, oltre la quale soltanto possiamo postulare il tutto e non il frammento, un altro vivere e la felicità (che cos’e questa, se non la dissoluzione del tempo?).
In questa prospettiva, Parigi, Londra, Berlino, Napoli, Milano, Bergamo, Amsterdam e molti altri luoghi, diventano tappe di una ricerca tutta interiore che avanza formulando sempre la stessa domanda, come fosse un mantra: Che cos’è l’essere? Domanda ontologica, rispetto alla quale ogni risposta sarebbe a dir poco parziale, insufficiente, evasiva. E dunque non resta che afferrare qualche immagine qua e là, e fermarla attraverso la scrittura.
Eppure, il sensus di marcia che ogni andare implica, per cui ci lasciamo alle spalle un luogo per incontrarne un altro, in fondo è sempre un ritornare. Come se di nuovo non ci fosse nulla, e ogni città e ogni paese già conoscessimo. E così i ricordi che: “non sono dietro di noi ma precedono quel tanto che impedisca di afferrarli.”
Che cos’è il viaggio se non l’eterno quanto disperato rincorrere un’immagine già vista che, alla stregua del ricordo, riaffiora inaspettato? Viaggiare non è, forse, percorrere sentieri già battuti, scrivere parole già scritte? Ciò che potrebbe apparire un furto, peraltro confessato dall’autore nell’ultimo capitolo di La linea dei passi – che con Nietzsche definirei un libro inattuale nel senso di un sguardo pienamente demistificante, nella misura in cui scorge il danno, la colpa e il difetto proprio dove quest’epoca va più fiera – finisce per diventare un gioco teso a svelare chi possa nascondersi dietro una parola piuttosto che un’immagine. Come scrive Enzo Rega: “Il furto, però, non riguarda solo le immagini, ma anche le parole – e le frasi – nelle quali il viaggiatore si è imbattuto. E finiscono, poi, le parole e le frasi, irriconoscibili, o per lo meno mascherate, fra le proprie.”
E così, tanto per cominciare, spuntano i nomi di Italo Calvino e Erasmo da Rotterdam, rispettivamente di Le città invisibili e L’elogio della follia, come pure dietro l’angolo di alcune parole potremmo scorgere lo sguardo enigmatico di Kafka, quello di Il processo e Il castello. Mentre a L’uomo senza qualità di Musil si deve l’invenzione del calco di Moosbrugger, nonché qualche espressione riadattata al proprio registro. E cosa dire de La ripetizione di Peter Handke, vuoi vedere che c’è anche lui dietro questa scrittura così lenta e interrogante? E chi, se non Walter Benjamin avrebbe potuto suggerire questo incedere nella storia con lo sguardo rivolto al passato? (Un nuovo più moderno Angelus Novus?)
Ma, c’è un altro elemento fondamentale in questo libro che potrebbe trovare una sua nobile paternità in quella che i critici ebbero a definire “la letteratura dello sguardo”, alludendo alla prosa radicale di Alain Robbe-Grillet.
Radicale perché sovverte le regole del romanzo classico ottocentesco in nome di quello che altri battezzarono Nouveau Roman, una narrativa apparentemente senza personaggi e senza trama. Riecheggia ancora, felicissima, la formula di Roland Barthes secondo cui il romanziere moderno non parla del mondo ma parla il mondo.
Analogamente, in La linea dei passi, non c’è protagonista nel senso stretto della parola, se non un eroe al grado zero, un clamoroso “ognuno” che non ha la pretesa di conoscere il mondo e di raccontarlo. Non c’è più, per così dire, quel rapporto di fiducia che legava il lettore a Balzac piuttosto che a Dickens. Come direbbe lo stesso Alain Robbe-Grillet: “Il malessere del narratore si traduce nel fatto che, non ha scelta, crea il mondo con le sue parole proiettandosi verso l’esterno.”
Rimanendo al libro di Enzo Rega, serpeggia sotterranea ma avvertibile ad ogni passo, l’impossibilità di imbrigliare l’esistente entro lo schema di una visione personale, per sua stessa natura autoreferenziale. Come pure, appare del tutta illusoria qualsiasi redenzione individuale e la benché minima possibilità di giustificarsi per forza propria.
D’altronde, la struttura stessa del libro riflette una trama debole per non dire inesistente, e il diario diventa trascrizione di un girovagare apparentemente disordinato, direi di una deriva esistenziale che, si badi bene, non è un perdersi ma un ritrovarsi. Ciascun capitolo racconta di un luogo diverso ma pur sempre luogo di una domanda, di un rito interrogante in cui il soggetto non è l’io ma il mondo stesso. All’evidenza del tangibile corrisponde un’altrettanta evidenza del percepito, che non è metafisicamente “altro” ma l’unico possibile. Tuttavia, come ci avverte implicitamente l’autore, è necessario un movimento carico di slancio: “Non è il mondo che viene a noi, ma piuttosto il contrario.”
Per quanto ogni capitolo potrebbe sopravvivere a sé stante, il libro fa blocco nelle coordinate della narrazione, rinviando di volta in volta la sua possibile efficacia, continuando il suo viaggio senza residui, passo dopo passo. A partire dal protagonista, quel clamoroso “ognuno” di cui sopra, per arrivare al lettore.
All’apparente realismo soggiace un lirismo asciutto dal ritmo lento e sincopato che, se da un lato dà andamento alla narrazione, dall’altro dispiega una temporalità distesa e mitica. Già detto, non nel senso dell’eroe classico, qui più che il fragore dello scontro c’è il bisbiglio del fluire meditabondo che ad ogni passo interroga il mondo. E sotto la superficie scorre una tensione costante, un fremito attraversa ogni pagina. Come scrive lo stesso autore: “Sotto la superficie della mia poesia si intuisce dell’altro, abortito. E qualcuno sotto la mia pelle burocratica avverte – forse – altre tensioni, un altro vivere. Tirare questo fuori è obbligarsi a nascere, finalmente.”
In fondo, qui come in altri momenti del libro, possiamo cogliere quello che potremmo definire l’intento programmatico dello scrittore, l’orizzonte entro il quale si inserisce la sua poetica. Elemento meta-testuale questo, che si riaffaccia in più di un’occasione con l’effetto di coinvolgerci in una riflessione tutt’altro che solitaria. Espediente che, forse è utile sottolinearlo, non mette in gioco semplicemente le motivazioni dello scrittore ma l’intero scenario entro cui si muove. Sicché, può succedere che un’esperienza personale assuma il carattere di un rito interrogante allargato e partecipato. Una riflessione piena di tensione, dietro la quale si nascondono le mille domande sul ruolo stesso dello scrittore nella società odierna: Chi è? Che cosa può e che cosa non può fare? Fino a dove può spingersi?
In questo libro di Enzo Rega, non a caso vincitore ex-aequo per la narrativa inedita nell’edizione 2018 del premio “La Ginestra” di Firenze, si affacciano le stesse amletiche domande, percorso com’è dal medesimo rovello: Chi e l’intellettuale oggi? Dove comincia e dove finisce il suo impegno?
“Scrivere non è un atto di lucidità. È un lavoro all’interno del generale fingere. Ci si finge scrittori, e si scrive. Gli oggetti dello scrivere sono le nostre finzioni quotidiane. Il tema è la finzione, non come tale, ma come vita.” Ecco, allora, che la riflessione sul proprio fingersi scrittore diventa metafora di una finzione assoluta, insinuando un dubbio atroce: la vita stessa, non è forse una finzione?
Neanche postuliamo l’esistenza di uno scarto tra noi e il mondo, tra la letteratura e la vita, tra la soggettività dello sguardo e l’oggettività di ciò che ci si pone dinanzi, che già avvertiamo, con senso di vertigine, che è una finzione. Il confine non esiste, benché oggi molti ne parlano e così di identità e altri concetti figli della paura spettacolarizzata ad arte (di coloro che vivono un mondo dietro al mondo, avrebbe sentenziato Nietzsche). L’essere per definizione comprende tutto e non c’è differenza tra l’io e il tu, il momento indicale collassa nella percezione indifferenziata dell’esistente, in quell’attimo privo di durata in cui ogni cosa è onnipresente alla nostra coscienza.
“Quando il bambino era bambino era l’epoca di queste domande: perché io sono io, e perche non sei tu? Perché sono qui, e perché non sono lì? Quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio? La vita sotto il solo è solo un sogno? Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo quello che vedo, sento e odoro? C’è veramente il male e gente veramente cattiva? Come può essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare e che, una volta, io che sono io, non sarò più quello che sono?”
Quale conclusione migliore se non questo stralcio di monologo tratto da Il Cielo sopra Berlino di Wim Wenders, firmato dal premio nobel per la letteratura, il tanto discusso Peter Handke. L’idea si è fatta strada furtivamente, direi passo dopo passo, seguendo la linea tracciata da Enzo Rega che un giorno ebbi a definire il Wim Wenders italiano. Non solo, come mi è parso di cogliere, per una somiglianza fisionomica ma soprattutto per lo sguardo, quello stesso sguardo schivo e demistificante, e non per questo, privo di passione e di empatia.