“Versi Pelle” è la prima raccolta poetica edita del giovane autore Luigi Scala, classe 1984. Come testimoniato dalla prefazione di Tomaso Kemeny e ribadito nella postfazione di Chicca Morone, Scala fa riferimento al movimento poetico del mitomodernismo fondato dallo stesso Kemeny, insieme a Giuseppe Conte e Stefano Zecchi, nel 1994, anno del manifesto che rivendica il diritto di cittadinanza, nella contemporaneità, alla Bellezza come strumento necessario a una rinascita etica, all’insegna del ruolo eroico, eretico ed erotico della poesia che va riscoperto nella valenza universale del mito, nella ricostituzione del rapporto originario fra uomo e mondo.
È in questo sostrato culturale che nasce la poesia di Scala, tutta intrisa di riferimenti classici e mitologici, talvolta anche atteggiata nella ricerca del termine desueto e forbito, per generare “meraviglia” nell’accezione di Marino (citato in una poesia). Certo il tema mitologico consente a Scala riuscite di pregio come nel caso della poesia “Gorgone”, così icastica nelle sue due quartine, preziose nella scelta lessicale: “pupille / d’algente melagrana”, “acquario d’indaco corallo”, “gli scatti del capo anguicrinito”, per dare una resa plastica, dinamica al suo verso. Tuttavia si ha sempre la sensazione di un distacco ironico, a tratti parodico e sarcastico, da questa classicità ostentata, quasi una presa di coscienza del ruolo già completamente assolto da certa letterarietà che ha fatto il proprio tempo, che viene qui esibita fino a portarla a un punto di non ritorno, all’ammissione della frattura fra il suo linguaggio e il mondo.
Non a caso la poesia d’apertura si riferisce all’autore come a chi “barcolla spesso sulle gambe incerte”, i suoi versi sono “vagito” e “gorgogliante ritornello” (un tono vicino a certo crepuscolarismo, come in Corazzini), fino alla chiusa desublimizzante in cui si dice “anche gli angeli possono inciampare”, con evidente scatto ironico. L’uso quindi di tutto questo armamentario aulico, il citazionismo dotto, il linguaggio a tratti arcaizzante, sono una specie di difesa dall’affronto del mondo, al poeta difetta “la possente corazza / di cui è rivestita soltanto / la massa degli anonimi mortali”. Mondo tuttavia che non viene subìto, ma può essere tenuto a distanza, arginato dalla restituzione integrale alla poesia, nel suo ruolo appunto mitomodernista: “della normalità non so che fare, / la lascio agli impiegati della vita.” La fiducia nel ruolo della poesia non è tuttavia incondizionato e ingenuamente fideistico, la poesia è un esercizio duro di introspezione e confronto con il mondo, che non permette fughe edeniche in vagheggiate “età dell’oro” se “il falsario andare dei secoli / l’avrà dannato in vile metallo”: ecco il compito bene individuato, ossia lavorare questa materia inerte e restituirla a dignità attraverso la parola, che può naturalmente incespicare, cadere in vicoli ciechi, ingannarsi e contraddirsi, ma sa che occorre “andare avanti, / col vento controcorrente”.
Non è un percorso né facile né lineare quello della poesia di Luigi Scala, il cui libro può certo soffrire di alcuni dei limiti tipici di un’opera prima (una certa sperimentazione non sempre perfettamente organizzata, l’imitazione dei maestri, la tentazione a spendersi su una molteplicità di temi e motivi non sempre omogenei, la stratificazione della scrittura con esiti estetici anche dissonanti, certo imputabile al processo di crescita della scrittura stessa), ma sicuramente è identificabile una linea ben definita, capace di rielaborare il materiale della tradizione con un accento personale. Crediamo che questa scrittura risulti più convincente dove, deposta la corazza protettiva della lingua iper-letteraria e i temi della tradizione, si affida a una vena più ironica, a tratti tagliente e sarcastica, quando denuncia “quell’amore indifferente / comprato a tranci o a pacchetti / nel mercato del consumo del niente” o la “nostra società infartuata” o le “bocche avvilenti” nel “magma del lessico quotidiano”. Questo trova conferma anche nella parte centrale del libro dove si accampa una sorta di canzoniere, a tratti paradossale e parodico, quasi un gioco surreale di schermaglie, ricatti, disillusioni, con affastellamento di immagini stranianti, con un gusto tutto barocco della decadenza e dell’eccesso che altro non sono che lo specchio di una visione problematica e traumatica dell’esistenza, quindi quanto di più lontano esista dal classicismo di retroguardia.
C’è quindi da sperare che, nella consapevolezza di questa prima prova senz’altro positiva, Luigi Scala possa dare sempre più sviluppo e corpo a questa sua vena dissacrante, radical-chic, ironicamente saputo (ma mai supponente), base di una scrittura che, come si richiede a ogni poeta, lo possa sempre più rendere interprete consapevole del suo tempo, capace di restituire al lettore lo “stupore del mondo”.