Pubblicato il 30/10/2008 16:10:00
David Leavitt, ex enfant prodige del movimento minimalista a stelle e strisce, ormai affermato scrittore e quasi completamente cittadino del nostro Paese, continua la sua rincorsa al gruppo dei Bloomsbury, atteggiandosi a membro di tale, mitico, gruppo di artisti, ricalcandone i vezzi e lo stile con questo romanzo che non è propriamente un romanzo nel senso stretto del termine. Il matematico indiano, è un personaggio realmente esistito, si chiamava Srinivasa Ramanujane, il quale un giorno, stanco dell’isolamento culturale, scrive una lettera ad un brillante matematico britannico, tale G.H. Hardy, per informarlo della sua esistenza, innanzitutto, e perché vuole entrare nella grande famiglia accademica degli affermati matematici britannici, di cui Hardy è uno dei più noti esponenti. Nelle lettere che invia dalla Colonia parla dei suoi risultati nella ricerca matematica ed accenna al fatto che avrebbe risolto un grande enigma al quale molti sono al lavoro senza successo. Viene così invitato in Gran Bretagna poco prima dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, con Hardy ed i suoi colleghi inizia una proficua stagione di scambi e scoperte scientifiche nel campo della matematica. Tutto va per il meglio, finché Ramanujane comincia a dare segni di decadimento fisico, sino ad ammalarsi gravemente; i medici non sanno a cosa attribuire la malattia, forse è una malattia seria, forse un malanno passeggero, o forse si è avvelenato col rivestimento di piombo della pentola in cui cucina i suoi pasti. Se, apparentemente, non vi è un motivo certo, è possibile supporre la causa della sua malattia in una sorta di malessere che scaturisce dalla diffidenza e dal tipico distacco britannico; malessere che tra alti e bassi e giri di cliniche lo porterà alla tomba. Il racconto si snoda elegantemente tra i paludati ambienti di Cambridge, con tutti i nomi di spicco dell’intellighenzia del tempo, molti dei quali eccentrici omosessuali (chissà perché a quei tempi gli omosessuali dei ceti elevati erano sempre eccentrici e sfacciati – secondo Leavitt) e alcuni parte proprio dei Bloomsbury (per esempio l’economista Keynes), si sposta in confortevoli cottages della campagna inglese e di tanto in tanto capita nella Londra tristemente bellica. Il romanzo, chiamiamolo così, ma forse sarebbe più opportuno ricorrere al termine biografia romanzata, è molto ricco di avvenimenti, copre un lungo arco di tempo e coinvolge molti personaggi, descrivendoli in modo molto approfondito, sia nella loro veste pubblica sia da un punto di vista più caratteriale e dei sentimenti. In particolare sotto la lente d’ingrandimento dell’autore troviamo Hardy, che, con un elegante escamotage narrativo, racconta tutta la vicenda in una specie di lungo flash-back mentre sta tenendo una conferenza. La narrazione è assai ricca di particolari e offre un efficace spaccato della società, sia quella ristretta che gravitava attorno all’università di Cambridge, che ci viene mostrata dapprima nella sua algida immutabilità, poi mentre comincia a fare qualche passo verso il mondo moderno dovendo accogliere un cittadino delle colonie, senza un regolare curriculum scolastico, e poi costretta a fronteggiare le inevitabili contraddizioni della guerra. Contemporanemente ci dona anche un cronaca della società britannica all’alba del primo conflitto mondiale, e l’imperversare di esso, ben descritto, senza incongruenze o giri viziosi, portando in luce anche aspetti dell’epoca – autentici -, secondari nella vicenda, ma molto interessanti. Il romanzo risulta interessante per la ricostruzione dell’epoca e per lo studio delle vite di eminenti matematici, ma secondo me, stenta ad appassionare ed emozionare veramente il lettore e lo culla semplicemente nella sua algida, sebbene assai ovattata, precisione, la vicenda stenta a non decollare, l’atmosfera è talmente esatta e al contempo calibrata e controllata, da risultare in alcuni punti addirittura soporifera, il libro è un ottimo esempio di stile, e di capacità di scrittura, ma non coinvolge e appassiona poco il lettore La vita del professor Hardy, essendo l’asse portante della trama, viene analizzata in modo particolareggiato, portando il lettore addirittura a scoprire il medesimo che dialoga col fantasma del suo ex amante, (di cui non si riesce però a sapere molto lungo tutte le 593 pagine del volume), ce lo mostra in tutte le sue apparizioni accademiche, le sue avventure e i suoi altalenanti rapporti con le due donne che formano la sua famiglia. Si arriva addirittura a scorgere una specie di innamoramento di Hardy per Ramanujane, ma sembra più un appiglio a qualcuno per vincere una malinconica solitudine più che un vero e proprio sentimento. Nell’impeto, quasi maniacale, di voler ricreare perfettamente l’atmosfera di eminenti matematici a contrappunto della narrazione troviamo formule matematiche (assolutamente inintelligibili per chi scrive) e anche il titolo va a collocare il romanzo nel fortunato filone dell’anno: “Metti la matematica in un romanzo”, ma di romanzesco vi è a mio avviso ben poco, tutto si basa su fatti reali, su biografie documentate e via discorrendo, ovvero il libro è una ricostruzione romanzata di fatti e personaggi assolutamente reali, dalle cui biografie l’autore ha attinto a piene mani per costruire l’imponente “romanzo”. Una piccola nota a margine, mi appare evidente che la persona che ha scritto l’accenno di trama che compare nel “risvolto” della copertina non ha granché letto il libro, in quanto commette una macroscopica imprecisione.
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