Pubblicato il 24/12/2007
Elio Pecora è autore di raccolte di poesia, romanzi, saggi critici, testi per il teatro. Nel suo ultimo lavoro poetico, ‘Simmetrie’, si legge un poeta molto elaborato nella scrittura e nel pensiero, alla ricerca di una possibile via di fuga dal reclusorio della materia corporale ma che, nello stesso tempo, è affezionato al luogo della sua detenzione; talvolta il suo versificare è misterioso e assorto, come se il poeta si perdesse in meditazioni sue personali che scrive sul foglio non tanto per comunicarle a probabili lettori ma quanto appunto per meditare in sé stesso. La maggior parte dei testi sono snelli e quasi narrativi, molto interessante e articolata è la poesia che apre il libro, ‘La stanza’: “E’ una stanza il corpo: / nido-cella-recinto. / Abito in cui bastarsi, / da non potersi assentare un istante. / Gabbia d’ossa e di arterie di dove assistere al mondo…”. L’anima, imprigionata nella stanza del corpo, cresce ed evolve nella vita, nelle esperienze relazionali e in particolare amorose, ed è proprio colpa del corpo l’insazietà dell’amore che la pervade: “Corpo mai sazio, mai quieto. / Un amore al giorno cercando l’amore…”; un corpo, dal quale si assiste, ivi rinchiusi, alla corsa di altri corpi, di altre anime imprigionate anch’esse, e per questo lontane, un corpo che può provare a fermare gli altri corpi, alla ricerca della compagnia di cui necessita l’abitante della stanza fatta di vene e arterie, ma che il poeta vede pur nella sua piccolezza corpuscolare come un “Eco di echi infiniti. / Corpuscolo che reca l’universo / e lo sostiene…/…Sede del ritornare e dell’addio”. Decadenza e infinita piccolezza del nostro esistere suggeriscono di andare insieme in cordata, uniti in un male comune: “Di tanti ognuno comprende nel buio cuore / l’urgenza estrema di questo andare insieme, / l’uno a fianco dell’altro…” e “la paura di essere cacciati / da un recinto indifeso” e nel contempo “cercare nel chiuso / un buco, una crepa”. Di tanto in tanto si presenta nella raccolta una sorta di un dualismo di tendenze e desideri; in tal modo il poeta, a mio avviso, rivela la necessità di vivere pienamente la vita che gli è stata data anche se dall’altra parte si rende conto della inutilità di tale esistenza, situata “dentro un immenso vuoto / … / Quale voce accompagna? / quale mano conduce?”. L’uomo è capace di vivere la felicità, momenti reali che può esperire con il cuore, ma anche allora v’è il dubbio insufflato da una domanda che porta mestizia: “Ma è possibile che questa felicità, / così colma, comprenda anche tutti i disagi, tutti gli assilli?”, si deve esistere perché è bello ma senza “disperare della brevità, / … / Dentro la contentezza sapere che finirà”. Nella parte centrale del libro Pecora cambia registro linguistico e passa a una poesia in prosa, piccoli racconti di vita quotidiana che lasciano ammirati per la fantasia che rivelano, per le astruse invenzioni che usano i sogni per il loro ingresso nel mondo e ci si chiede se Pecora queste esperienze le abbia vissute, se i personaggi e i sogni siano reali accadimenti, o storie sentite da amici e conoscenti, un dubbio che lascia il piacere, qualche volta, a un lieto fine come nel breve testo intitolato ‘La naia’.
Nella sezione finale intitolata ‘Per altre misure’, affronta il tema della piccolezza dell’umanità e delle vicende umane che sono importanti alla nostra misura ma che in relazione alla vastità cosmica sono così inconsistenti: “Tutta qui la faccenda. Farneticano, / patiscono. Niente di più. Disagi / per di più strasentiti… / Dentro un tutto che non è più di un granello / nel mondo che ruota, / nella galassia sfilacciata”; e poi l’accusa alla folla di uguali che “parlano la lingua della loro testa, / delle loro viscere, ma è una lingua / soltanto loro e per essa si mostrano”; e l’umanità che nonostante tutto resta vigile, anche se, a detta del poeta, inutilmente, con una voglia irresolubile, pencolando sull’abisso, lo stesso delle stelle. Infine in ‘Doppio movimento’ Pecora mette in evidenza il dualismo dell’esistenza “…nella sazietà / temere la fame, sospirare nella contentezza. Così, da per tutto. / Non un attimo di sosta. Sempre una guerra, / un contrasto. Profumi che divengono fetori, / polpe che infradiciano, / parole come baccelli svuotati”. Dell’amore parla mettendosi nei panni di una ragazza appoggiata a un albero con il suo ragazzo, dove vorrebbe rimanere senza misura di tempo “fino a che è dato / senza orologio e senza calendario”. L’amore perno di un’esistenza, la cui assenza può portare disperazione e aprire vuoti, ma anche l’amore è schizofrenico: “Il suo amore è pieno di odio, / il suo odio è pieno di amore”.
Che cosa si può dire a Elio Pecora che già non gli sia stato detto sulla sua scrittura? Non fa forse piacere continuamente sentire complimenti e ricevere lusinghe di ben riuscite poesie? La persistenza della gioia forse dipende da noi, forse la tristezza che la gioia porta in nuce è essa stessa possibilità di nuova gioia, come un seme nella polpa, va seminato e annaffiato, forse quel negativo nel positivo, quel buio che scaturisce dalla troppa luce va osservato con pupille preparate, affinate, e allora, forse, quella stanza potrà essere aperta ma dipende da noi, l’intenzione di trovare quel varco è sacrosanta ma ogni stanza ha una porta, basta aprirla. Un libro la cui lettura vogliamo vivamente raccomandare.
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