Terminata la lettura di questo Vite ordinarie, corposo romanzo di Franca Alaimo, due sono le sensazioni in cui si rimane a lungo irretiti. L’una è quella del dispiacere di avere terminato tale lettura, in quanto con essa si era come avvezzi all’appuntamento con dette pagine, tali da funzionare da attraente compagnia, cosa che verrà meno. L’altra quella di restare come intrigati e fatti partecipi di un mondo, quasi tutto per lo più da parentela o da vicinato affabile, coinvolgente, tra atmosfere confidenziali, idilliche e realistiche alternativamente, in un memoriale in cui le figure, che magari sembrano troppe, palpitano di verità per sentimenti e linguaggio. E sono figure che compaiono e dialogano come in un susseguirsi scenografico, rese vive nel dettaglio di volti, occhi, vestiario, gesti, atteggiamenti, pensieri, anche sottintesi. E questa che è forse la cifra peculiare delle doti narrative dell’autrice, stupisce come si mantenga uniforme e compatta per tanta mole di pagine.
Però, si badi, l’opera ha una assai significativa struttura di fondo, pesca nel senso della vita ove “nulla capita a caso. Ogni esperienza è un’occasione per avvicinarci al tracciato già segnato della nostra vita”. E qui, per tutto il libro, questo tracciato pare segnato dal senso della morte, partendo dal primo capitolo all’ultimo, quello che l’ovvio quanto struggente sfrigolio della fiamma ossidrica attorno alla cassa mette punto a patemi e peccati, a disillusioni e sogni. Tuttavia la vita, se ci è data in sorte, e in qualunque condizione ed evento, bisogna affrontarla, liberandoci il più possibile dai conformismi moralistici, e quindi da una religiosità arcaica e paternalistica che fa a pugni con la libertà umana quale sta nei carismi dell’arte e della poesia: e infatti l’autrice non si limita nell’addurre citazioni opportune, attinenti al bisogno di confermare le sua distinzione intellettuale. Perché non c’è dubbio che il tutto venga da una carica autobiografica ove la personalità dell’autrice, a volte anche provocatrice e corriva ma sempre colta, emerge in pieno e così la sua lezione: che è lezione di polemica se il dialogare e il commentare l’evento storico o quotidiano vogliono la distanza dalla banalità del consueto perbenismo; o è lezione di piena libertà dei comportamenti se si afferma l’istintivo slancio sperimentale ed anche il passionale desiderio di prestarsi ad ogni tentativo di felicità: è il prodigio della poesia, come suggerisce sempre l’incanto della natura quando la cerchiamo o la contempliamo. Ci sono nella parte finale dell’opera delle pagine col titolo L’autostop. Il tango, dove, dallo sfoglio dell’album delle memorie, tornano le immagini dell’incontro della protagonista Giovanna e la cugina condue giovani musicisti; ne segue il portarsi al mare di Sferracavallo per un’esaltante spasso, al tramonto e nella notte rischiarata dalla luna; e sono pagine straordinarie, da antologia, espressione di una eccezionale vitalità psicologica e narrativa, quasi come un esplosivo canto alla vita prima di concludere con il dire di morte. Pagine bellissime, di quelle che impreziosiscono l’opera. E non sono le sole.