“SALVO IMPREVISTI” E “L’AREA DI BROCA”:
FAR POESIA SOGNANDO UN MONDO PIU’ GIUSTO
Di Mariella Bettarini (intervista a cura di Roberto Mosi, pubblicata sulla rivista Testimonianze)
I quarant’anni di una ricca esperienza letteraria e culturale quale quella di «Salvo imprevisti» (su cui si è innestata poi «L’area di Broca») sono qui raccontati da una delle fondatrici, Mariella Bettarini. Una rivista che è stata ed è un punto di riferimento e che continua a dare il suo contributo anche per superare quel distacco tra politica e cultura, tra poesia e società che spesso si presenta oggi come incolmabile.
All’intervista seguono due testi gentilmente concessi a firma di padre Ernesto Balducci (che «Salvo imprevisti» ebbe come collaboratore fin dagli esordi).
In quegli utopici anni Settanta
Nel febbraio del lontano 1973 fu pubblicato il primo numero della rivista “Salvo imprevisti”, numero unico in attesa di autorizzazione. Dopo venti anni di vita, dal 1993, è stata innestata nell’alveo di questa esperienza quella de “L’area di Broca”, una pubblicazione periodica ancora viva e vitale. Mariella Bettarini scrive nel supplemento all’ultimo numero della rivista (n. 6-7, luglio 2012-giugno2013), dedicato a quest’anniversario: “Fondata negli utopici primi anni Settanta da Silvia Batisti e dalla sottoscritta, prendendo poi il sottotitolo di “quadrimestrale di poesia e altro materiale di lotta”, autofinanziata, interdisciplinare, caratterizzata da fascicoli monografici, “Salvo imprevisti” raccolse intorno a sé vivi interessi, dibattiti e circa quattrocento collaboratori, in un itinerario di ricerca e sperimentazione piuttosto raro per vivacità e durata. (…) Una rivista, un lavoro ormai “storicizzati”, presenti, tra l’altro, in volumi di autori come Fortini, Pasolini, Manacorda, Asor Rosa, Zagarrio, Marco Marchi, Giorgio Spini, ecc.».
«L’area di Broca» – dalla zona del cervello dedicata alle funzioni del linguaggio – si è innestata su questo «tronco» di ricerca e di passione, una rivista di “letteratura e conoscenza» nella quale si alternano testi creativi e scientifici, narrativa e filosofia, poesia e politica. Alcuni titoli dei numeri monografici: Cervello, Fotografia, Acqua, Caos, Macchine, Suoni, Tempo, Amicizia/cooperazione, Cinema/video/TV, Numeri, numeri, Gli altri, Denaro, Cibo, Lavoro, Memoria, ecc.
Prezioso il supplemento della rivista, ora citato: con l’indicazione dei fascicoli pubblicati dal 1973 a oggi, è riportato l’elenco dei collaboratori e collaboratrici che hanno partecipato a questa esperienza (circa ottocento). Fra questi, nomi alquanto significativi della letteratura e della cultura italiana, quello di Ernesto Balducci. La redazione si presenta all’appuntamento dei quaranta anni, con un risultato quanto mai importante per il mondo della cultura. Sono oggi consultabili sui siti www.emt.it/broca e www.emt.it/salvoimprevisti i 26 numeri de «L’area di Broca»; dei 37 fascicoli di «Salvo imprevisti» ne sono oggi consultabili 11, in attesa della registrazione degli altri numeri che sarà effettuata prossimamente.
L’INTERVISTA A MARIELLA BETTARINI
D. Il primo numero di “Salvo imprevisti” portava il titolo “I perché di una pubblicazione”. Puoi ricordare questi perché e dirci se, in qualche misura, sono ancora attuali?
R. “I perché” che dettero il via alla pubblicazione (ormai quarantennale) di “Salvo imprevisti”- che poi mutò il titolo con “L’area di Broca” - mi paiono tuttora assai vivi. Si iniziava dicendo della scarsità del numero dei lettori, e tuttavia si affermava la necessità di dar loro alternative mediante una cultura che avesse un fiato più ampio, soprattutto che si rivolgesse “al mondo di coloro che non hanno mai fatto né pensato la cultura, ma l’hanno soltanto subìta”.
Certo, oggi il cosiddetto “mondo della carta stampata” è divenuto il mondo di Internet, del Web, di FaceBook, degli e-book, e via discorrendo, ma il senso profondo dei problemi legati alla cultura, alla letteratura è rimasto lo stesso, specie in un’Italia in cui il consumismo, la scarsa democrazia, il lassismo etico, la scarsissima passione civile continuano imperterriti ad imperare, a contare numerosissime “vittime”.
Un altro dei “perché” di questa iniziativa consisteva, appunto, nella necessità di “conoscere il fine di questi mezzi di massa”. Scrivevo allora dell’indispensabilità di una cultura che vedesse finalmente concludersi “la vergognosa divisione del lavoro”, che rappresentasse “la rottura della subordinazione del lavoro manuale all’opera d’arte”. Mi pare che questi problemi non siano passati di attualità. Al contrario…
D. È possibile distinguere fasi, caratteristiche diverse nella vita di “Salvo imprevisti” e “L’area di Broca”? Quando sono stati più vivi i rapporti con la vita politica e culturale della città?
R. Direi che le caratteristiche di “Salvo imprevisti” e de “L’area di Broca” risultano piuttosto simili, anzitutto nella volontà di affrontare di volta in volta, di fascicolo in fascicolo, precisi temi monografici, ossia di fare delle due riviste, sempre, un “territorio” di ricerca e di approfondimento su temi via via individuati dalla redazione e proposti ai vari collaboratori, piuttosto che generiche “antologie” di testi in versi e in prosa.
Se, però, c’è una certa differenza tra “Salvo imprevisti” e “L’area di Broca” questa consiste, semmai, nel fatto che “Salvo imprevisti” aveva affrontato tematiche più sociali e, diremmo, “civili”, mentre “L’area di Broca” ha ampliato piuttosto gli interessi culturali, occupandosi anche dell’aspetto scientifico - e non solo letterario - della cultura.
Per quanto riguarda i rapporti con la vita politica e culturale della nostra città, direi che, forse, tali rapporti sono stati più intensi nella fase 1973-1992, ossia con “Salvo imprevisti”, fase che corrisponde, poi, ad anni un po’ più “impegnati” di quelli seguenti (direi meglio: un po’ meno “disimpegnati” di quelli che sono seguiti…).
D. Ci vuoi parlare di uno dei ricordi più cari, più emblematici legati alla vita della rivista.
R. Non mi è affatto facile fermarmi a un solo ricordo legato alla vita della rivista. Si tratta di moltissimi, vivi, variegati ricordi lungo questi quattro decenni d’incontri, discussioni, lavoro, gioia, fatica, condivisione, conoscenze nuove, conferme, difficoltà, occasioni straordinarie di collaborare spesso con la più viva “intellighenzia” che la nostra nazione abbia avuto e abbia, e così via, così via…
Potrei citare i nomi – tutti! – dei molti amici e amiche della redazione, con cui ho condiviso (e condivido) questa magnifica esperienza. Così come potrei citare i nomi dei moltissimi collaboratori e collaboratrici (esterni alla redazione), che con assoluta generosità ci hanno onorato della loro presenza sulla rivista, che non ha mai avuto “fini di lucro”, non si è mai servita di denaro pubblico e che è stata tenuta in vita con il contributo economico volontario da parte dei componenti la redazione e con svariati abbonamenti (diminuiti nel tempo, pure per il fatto che la rivista è - ormai da anni, com’è giusto e necessario - consultabile anche in Internet).
D. Tra i collaboratori appare il nome di Ernesto Balducci. Cosa puoi dire a questo proposito e del rapporto con padre Balducci?
R. La collaborazione di padre Balducci a ”Salvo imprevisti” risale addirittura al numero zero della rivista (uscito nel settembre 1973) come risposta a un questionario (proposto dalla sottoscritta) su cultura di classe e neofascismo.
Seguì poi, tre anni dopo, la collaborazione al fascicolo 9 di “Salvo imprevisti” (settembre-dicembre 1976) dedicato al tema “Dopo il Sessantotto” . Questa consisteva in una magnifica intervista da parte di Silvia Batisti dal titolo “Sessantotto, fede e ideologia”.
Per quanto personalmente mi riguarda, la mia conoscenza di padre Balducci risale, invece, ai primissimi anni Sessanta. Allora vivevo a Roma, erano gli indimenticabili anni del Concilio, e padre Ernesto era stato “allontanato” da Firenze e viveva nei pressi della “Città eterna”. Ci furono fin da allora, per me, molte preziose occasioni d’incontro. Tra l’altro, padre Balducci diceva spesso Messa nella piccola chiesa di S. Lucia, a due passi dalla via Teulada, in cui – giovanissima - abitavo con la mia famiglia.
Tutto questo ha rappresentato per me, senza dubbio, uno degli incontri umanamente e spiritualmente più “fecondi” della mia vita.
D. Sembra di poter cogliere un maggiore distacco tra la politica e il mondo della cultura, una netta distanza fra poesia e realtà sociale. Ci sono possibilità per ridurre questo distacco e cosa può fare uno strumento culturale come “L’area di Broca”? I giovani oggi sono sensibili al mondo della poesia?
R. Domanda, domande assai “tormentose”, complesse… Sì, è vero: c’è ormai un enorme, “epocale” (come direbbe padre Ernesto), forse incolmabile distacco tra politica e cultura, tra poesia e società.
Ci si chiede che cosa può fare una rivista come “L’area di Broca”. Direi, senza infingimenti e con dolore, praticamente quasi nulla. O forse nulla del tutto… Eppure, eppure credo, crediamo ancora che non sia giusto cedere a un totale, irrecuperabile pessimismo. Credo, crediamo che forse non è ancora tutto perduto. Magari sono un’inguaribile ingenua, siamo inguaribili “idealisti”. Eppure bisogna tentare di non disperare, anche se i cosiddetti “segnali” di ripresa sono davvero scarsissimi e quasi spenti. E tuttavia, se non sarà certo la poesia a “salvare il mondo”, se alcuni giovani - che ancora seguono, scrivono, amano in qualche modo la poesia – non saranno coloro che determineranno un cambiamento, credo che i forti IDEALI di cui la letteratura, la poesia (degne di questi nomi) sono portatrici contribuiranno a un rafforzamento degli IDEALI di eticità e di cooperazione, di giustizia e di condivisione tra gli abitanti della Terra. IDEALI che dovranno divenire FATTI CONCRETI, fruttodi appassionato Pensiero e di approfondito uso della Parola, ossia frutto di CULTURA come indispensabile complemento e compendio di quei civili, etici Ideali.
Spero di avere (in sia pur minimo modo) risposto a questa complessa e tuttavia indispensabile domanda, così come alle altre, mentre sentitamente ringrazio per l’ottima occasione e per l’accoglienza, anche a nome e da parte delle amiche e amici della redazione.
Inchiesta su cultura di classe e neofascismo
(Contributo di Ernesto Balducci su «Salvo imprevisti», n. 0, settembre 1973)
«II compito dell’uomo di cultura è di mettere se stesso sotto sospetto in quanto in una società caratterizzata dalla divisione del lavoro egli ha ragione di temere che l’esercizio dell’intelligenza vissuto in modo acritico faccia di lui un agente ideologico del sistema di sfruttamento. Il fascismo sotto vari nomi si diffonde appunto tramite la cultura che segue le spinte del condizionamento economico creando i “valori” e i “miti” con cui il sistema si camuffa e guadagna consensi. Non ci dobbiamo distrarre. Il fascismo di Almirante è solo la punta dell’iceberg fascista il cui corpo massiccio ingloba anche le nostre coscienze. Il vero uomo di cultura è quello che si congiunge organicamente alle classi subalterne e ne traduce in termini di immaginazione o concettuali la spinta di autoliberazione, la carica di negazione del mondo costituito. Anche la poesia trova il suo luogo in questo prolungamento immaginativo della critica e della alternativa utopica che è l’anima di ogni rivoluzione. La sinistra italiana ha appunto questo compito in quanto è sinistra che usa come suo strumento l’intelligenza o l’immaginazione creativa. Molti intellettuali di sinistra sono in realtà borghesi perché scambiano il rifiuto rivoluzionario col vezzeggiamento dell’irrazionale, del primitivo e dell’erotico: sono funzionali al sistema che infatti li ricambia di premi e di larga ospitalità. Per uscire dall’equivoco occorre che l’impegno di partecipazione alla lotta sia il più possibile aderente alle provocazioni reali, assuma ciò che è veramente vissuto dagli oppressi ed ivi maturi il proprio gesto, la propria proposta specifica. Una rivoluzione culturale è anch’essa un mito drogante se non sconta se stessa nella puntualità del ribaltamento critico dei miti e nella solidarietà vissuta, in qualche modo, con la lotta comune. Ormai anche i sindacati come quello dei metalmeccanici esprimono esigenze culturali, spazi destinati ad uno sviluppo della cultura operaia. Bisogna cogliere queste occasioni per un nesso vivo tra gli intellettuali e la classe operaia la quale resta la forza portante per la rivoluzione. Quando poi questa ci sarà è impossibile dirlo. Bisogna agire come se ci dovesse essere domani»
Sessantotto, fede e ideologia
(Intervista a padre Ernesto Balducci a cura di Silvia Batisti, su “Salvo Imprevisti” n. 9, dal titolo Dopo il Sessantotto – settembre-dicembre 1976)
1 ) Che cos’è stato il ‘68 per lei uomo politico, uomo di fede, uomo di cultura?
2) Se dovesse collocare storicamente e sociologicamente il "dopo ‘68", gli anni Sessanta, questi anni, da quale presupposto partirebbe”?
3) La fede. La politica della fede. Crede che la fede sia, come dice Althusser, l’ideologia dell’ideologia?
“Intanto, come moltissimi della mia età, anch’io sono rimasto preso alla sprovvista dal ‘68, non ne he saputo cogliere immediatamente la portata rivoluzionaria e solo successivamente sono rimasto fedele, mentre per molti il ‘68 è stato una parentesi subito chiusa, a quello che ho ritenuto essere il messaggio politico-culturale del ‘68, tanto che sono solito, nella mia periodizzazione della storia che stiamo vivendo, considerare il ‘68 come l’anno della frattura storica. È col ‘68, a mio giudizio, che è diventata patrimonio comune della coscienza (parlo di una coscienza che sia coscienza, che non sia perciò al rimorchio del condizionamento della società esistente) la scoperta, la percezione del carattere conflittuale della società, non solo a livello delle strutture ma - come del resto chiunque accettava l’ideologia della classe operaia sapeva bene – anche a livello delle sovrastrutture.
Col ‘68 la società è diventata globalmente conflittuale e il conflitto viene avvertito anche là dove si realizza il rapporto fra la coscienza e le istituzioni; c’è, dal ‘68 in poi, uno scollamento progressivo delle istituzioni di ogni tipo dalla realtà effettiva della condizione umana. C’è quindi un’incrinatura, una frattura che attraverso come uno spacco l’intero universo dell’esperienza dell’uomo nel suo contatto con le istituzioni.
Le istituzioni hanno così perduto rapidamente di credibilità, e secondo me in modo irreversibile, per cui i conati riformistici delle istituzioni da allora in poi sono destinati tutti a vanificarsi.
Per me, dunque, il ‘68 è un momento fondamentale anche della mia autobiografia, e poi della storiografia. Infatti, il "dopo ‘68" si può leggere in due modi: uno (quello che mi sembra sia quantitativamente dominante) come un soprassalto sovrastrutturale del mondo giovanile in specie, che aveva un carattere utopico, e che perciò si è spento rapidamente, riconsegnando la società alla "saggezza" dei padri, per cui i padri sono ritornati a gestire come sempre il mondo di tutti. A me sembra invece di cogliere una specie di trapasso dal carattere traumatico che ebbe all’origine il ‘68 a una specie di normalità fisiologica. Si è cioè generalizzato il distacco delle nuove generazioni nei confronti del mondo degli adulti. Anche quei giovani che non si pongono problemi in modo acuto, esplicito, vivono però alla deriva, il mondo tradizionale non ha più vera presa su di loro. Questo vuoto della forza attrattiva delle tradizioni è riempito dal meccanismo dei condizionamenti della società dei consumi.
Non oserei dire che nei confronti del "prima del ‘68" oggi c’è più libertà: niente affatto. Forse il conformismo prevale; un conformismo che è diventato grigio, proprio alla maniera con cui (su questo mi trovavo d’accordo) lo descrisse Pasolini: un conformismo dilagante. Tuttavia, all’interno di questo conformismo, aumentano quelle che sono le minoranze rappresentative, nelle quali il senso del distacco dalla società dei padri è definitivo, senza rimpianti, e c’è una maggiore capacità di tradurre in progetto politico il messaggio di rinnovamento del ‘68. Qual è questo messaggio (m’ero dimenticato di dirlo)? È la riappropriazione della sovranità, il rifiuto di una società in cui si scambia la democrazia per la delega; un bisogno di partecipazione diretta, di gestione diretta della realtà. Questo è, in sintesi, il "messaggio" del 1968. Naturalmente, ripeto, la resa storica di questo messaggio è minima, però io sono fra quelli che credono che questa linea di tendenza allora emersa non sia introdotta, anzi agisca nel profondo della società, anche là dove non ha scatti traumatici, emergenze vistose, come una specie di fisiologia latente all’interno della coscienza collettiva.
Questo ha coinvolto anche il mondo dei cristiani. Infatti è proprio in quell’anno che si è rotto l’unanimismo conciliare nella chiesa a cui appartengo. Da allora in poi è finita l’illusione di poter rinnovare la chiesa con unanimità all’interno degli spazi istituzionali che avevano fatto proprio il messaggio del concilio. Ed è da allora che l’intuizione fondamentale del concilio è passata nelle mani delle comunità di base, della coscienza del credente, che ha sempre di più ridotto la propria identificazione con l’istituzione. Anche l’istituzione-chiesa è stata vista, alla stregua delle altre istituzioni come dicevo sopra, quale un prodotto storico, il cui intento è di gestire le coscienze, di condurle dall’alto.
Per me dal ‘68 (non solo in Italia: questo è valido per la chiesa universale) ha preso evidenza un modo alternativo di essere chiesa. Persino un’assemblea di comodo com’è stata quella della chiesa italiana ai primi di novembre ha riconosciuto, con un linguaggio discutibile, l’esistenza di una chiesa parallela, di una chiesa "altra", diversa. Essa si identifica, secondo me, con questa presa di coscienza delle proprie responsabilità di fede e della decisione di spendere questa fede in una scelta storica che sia una scelta di cambiamento radicale della società. Questa è poi la "politica della fede". È inutile che dica che io sono fra coloro che non mettono nessun nesso di necessità tra la fede e una certa scelta politica, che sottolineano anzi con forza la sfera autonoma della fede, il suo mondo di valori che coincide con le dimensioni dell’uomo che si riferiscono al senso ultimo della storia collettiva e della storia individuale. Perciò la fede non deperisce nella nuova congiuntura; essa viene del tutto spogliata dalla pretesa di portare una proposta ideologica, e quindi il compito essenziale di questa fase è - a mio giudizio - la liberazione della fede da tutte le commistioni ideologiche in cui si era come sedimentata. Un ritorno a una radicalità germinale della fede.
Che poi questa sia una nuova ideologia, è tutto da vedere. Personalmente ritengo che una fede che non si confronti con delle enunciazioni fisse e ferme, con delle teorizzazioni già date, ma si confronti con quello che per il credente è il punto essenziale della manifestazione del progetto di salvezza, cioè con la croce (che è la vittoria del potere sull’uomo giusto, che ha aperto le prospettive del regno ai poveri, agli emarginati); ecco, il confronto con quel punto essenziale, con quel focus che è la croce di Gesù di Nazareth, questo confronto, questo riferimento è un riferimento extra-ideologico, cioè un riferimento in cui la coscienza fa leva per liberarsi via via dalle sedimentazioni e dalle subalternità ideologiche. Quindi io non credo affatto che la fede sia l’ideologia dell’ideologia: essa è il punto critico dell’ideologia. Questo è il mio punto di vista.”