I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe di inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, - m'investe della sua forza il mare -
Parleranno.
dice Vittorio Sereni nella splendida poesia “La spiaggia” con cui si chiude il suo “Gli strumenti umani”, quel Sereni che viene anche citato dalla Gabrielleschi in esergo al suo libro. Credo che questi versi bene possano introdurre a questo “Di padre in padre”, opera di un’autrice matura e consapevole dei suo strumenti (in questo caso stilistici, ma ancora prima umani), un libro che si presenta con discrezione, a bassa voce, senza però cadere nell’intimismo o in una privatezza di dizione che porterebbe ad una autosufficienza consolatoria, ma come una testimonianza (senz’altro di amore, quello che non ha confine che lo possa arginare) di quell’universale che è rappresentato dal rapporto fra padre e figlia, quell’ancestralità biologica che ci accompagna dalla nascita e che è alla radice di ogni altra scelta futura. Esistono altre questioni che come questa si possano davvero dire ultime? Non è forse in questo nucleo primigenio la ragione della poesia?
Nella generale tendenza di molti autori contemporanei a cercare la strada della visibilità a tutti i costi, l’eccezionalità dei temi e della forma, la Gabrielleschi sceglie la riservatezza, la compostezza del dire, senza inutili ostentazioni o eccessi. Ne nasce un poema in frammenti, in parte diario a-cronologico in parte libro d’ore tutto laico, in cui il dramma della perdita si condensa in un registro stilistico asciutto e al tempo stesso denso, che non cede mai al patetico o alla melopea ma sceglie la strada del linguaggio frontale, secco.
Non viene solo da dentro
la voce che si alza
oltre il limite notturno
e abbraccia le ombre.
Per chi come me
non sa pregare
è il grido secolare
che agevola il viaggio
e porta veloce
verso l’ultima forma.
La maggior parte dei testi è breve, raramente eccede i dieci versi, con strofa singola, per lo più in verso libero ma estremamente calibrato dal punto di vista ritmico, punteggiatura ridotta all’indispensabile, millesimato l’impiego delle metafore, l’enjambement solo uno strumento per regolare il respiro, sintonizzarlo sul significato. È la pregnanza del messaggio ad articolare la voce; ciò che più preme è questo esprimere il senso della frattura immedicabile che non può quindi dispiegare alcun canto, ma piuttosto una partitura sinfonica naturalmente franta, come è proprio della vita nel suo compiersi. Il senso del ricongiungimento impossibile, l’impossibile reversibilità dell’accadere sono temi conduttori più volte dominanti nei testi, così come il senso di una perpetua e inalterabile regressione allo stato infantile da cui non si è mai davvero usciti, perché lì è avvenuta la crepa prima, la radice del dire.
Se sapessi il tuo indirizzo
non ti lascerei pensare, arriverei
sudata, sporca, in pantofole
o anche nuda, sicuramente intera.
Ogni tentativo di istituire compensazioni è un puro palliativo, impossibile ogni riscatto identitario:
tu sempre assente nei risvegli
io tra braccia sconosciute
e la fatica di essere un volto
di anno in anno
di padre in padre.
La vita di ogni giorno diventa una sequenza terribile di risposte inevase, la persistenza lacerante del dubbio causata dal dramma dell’assenza.
Non saprò mai
se qualcuno avrà cura di te
se io sono motivo del tuo orgoglio.
[…]
Da vent’anni non taglio i capelli
dormo male
il telefono ha smesso di squillare
in sogno tutti i volti
si assomigliano.
Perché te ne sei andato?
Crescere in fondo è un concetto puramente biologico, l’età è un affare che compete solo all’anagrafe dei vivi, alla sua vuota burocrazia: in definitiva si rimane l’ipostasi degli attimi imprescindibili del nostro cammino, la spoglia di chi ci ha lasciato. Così il nostro destino è rimanere eternamente fragili, incompiuti, in tutto diversi tranne che nella matrice insanabile che si annida dentro di noi e che ci obbliga a rimanere sempre piccoli, inadeguati forse.
Non è uguale la casa
e nemmeno il mio viso
il cuore piccolo
come allora.
[…]
E attraverso la stanza
sento gridare il mio nome
tu sei morto
sarò piccola per sempre?
Il libro procede attraverso questa accumulazione di frammenti, in un climax ascendente e ben orchestrato, alternando riflessioni intime a esposizione di nugae che tuttavia acquisiscono un forte concentrato di significato e necessità, rievocazioni memoriali che non sono mai nostalgiche ma assunzione di responsabilità verso la vita, il tutto strutturato come una sorta di personalissimo xenia, omaggio mai retorico a un bene che va preservato, di cui la poesia solo può farsi tramite cercando di essere traghetto anziché scialuppa di salvataggio.
Io non parlo la vostra lingua
vengo da un altro regno
la mia passione è aprire le porte
alzare le soglie
perdere le cose
per avere più spazio.
Ho mani nervose
nessuno paga per queste mani
o per quello che dico.
Ma tutti pagheremo la stessa moneta
per essere traghettati in un letto
da uno sconosciuto.
E il senso della poesia sta in questo attendere incondizionatamente, su una spiaggia o in un gran caffè poco importa, ascoltare l’eco sepolta, coltivare quelle toppe d’inesistenza per renderla speranza. Così si chiude questo viaggio di anno in anno, di padre in padre:
La signora in tailleur bleu
seduta gambe accavallate
al gran caffè di Simo
(gran caffè gran caffè)
e aspetta. Aspetta
aspetta.