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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Di padre in padre

Poesia

Laura Maria Gabrielleschi
La Vita Felice

Recensione di Fabrizio Bregoli
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Pubblicato il 17/05/2019 12:00:00

 

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe di inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, - m'investe della sua forza il mare -
Parleranno.

 

dice Vittorio Sereni nella splendida poesia “La spiaggia” con cui si chiude il suo “Gli strumenti umani”, quel Sereni che viene anche citato dalla Gabrielleschi in esergo al suo libro. Credo che questi versi bene possano introdurre a questo “Di padre in padre”, opera di un’autrice matura e consapevole dei suo strumenti (in questo caso stilistici, ma ancora prima umani), un libro che si presenta con discrezione, a bassa voce, senza però cadere nell’intimismo o in una privatezza di dizione che porterebbe ad una autosufficienza consolatoria, ma come una testimonianza (senz’altro di amore, quello che non ha confine che lo possa arginare) di quell’universale che è rappresentato dal rapporto fra padre e figlia, quell’ancestralità biologica che ci accompagna dalla nascita e che è alla radice di ogni altra scelta futura. Esistono altre questioni che come questa si possano davvero dire ultime? Non è forse in questo nucleo primigenio la ragione della poesia?

Nella generale tendenza di molti autori contemporanei a cercare la strada della visibilità a tutti i costi, l’eccezionalità dei temi e della forma, la Gabrielleschi sceglie la riservatezza, la compostezza del dire, senza inutili ostentazioni o eccessi. Ne nasce un poema in frammenti, in parte diario a-cronologico in parte libro d’ore tutto laico, in cui il dramma della perdita si condensa in un registro stilistico asciutto e al tempo stesso denso, che non cede mai al patetico o alla melopea ma sceglie la strada del linguaggio frontale, secco.

 

Non viene solo da dentro

la voce che si alza

oltre il limite notturno

e abbraccia le ombre.

Per chi come me

non sa pregare

è il grido secolare

che agevola il viaggio

e porta veloce

verso l’ultima forma.


La maggior parte dei testi è breve, raramente eccede i dieci versi, con strofa singola, per lo più in verso libero ma estremamente calibrato dal punto di vista ritmico, punteggiatura ridotta all’indispensabile, millesimato l’impiego delle metafore, l’enjambement solo uno strumento per regolare il respiro, sintonizzarlo sul significato. È la pregnanza del messaggio ad articolare la voce; ciò che più preme è questo esprimere il senso della frattura immedicabile che non può quindi dispiegare alcun canto, ma piuttosto una partitura sinfonica naturalmente franta, come è proprio della vita nel suo compiersi. Il senso del ricongiungimento impossibile, l’impossibile reversibilità dell’accadere sono temi conduttori più volte dominanti nei testi, così come il senso di una perpetua e inalterabile regressione allo stato infantile da cui non si è mai davvero usciti, perché lì è avvenuta la crepa prima, la radice del dire.

 

Se sapessi il tuo indirizzo

non ti lascerei pensare, arriverei

sudata, sporca, in pantofole

o anche nuda, sicuramente intera.

 

Ogni tentativo di istituire compensazioni è un puro palliativo, impossibile ogni riscatto identitario:

 

tu sempre assente nei risvegli

io tra braccia sconosciute

e la fatica di essere un volto

di anno in anno

di padre in padre.

 

La vita di ogni giorno diventa una sequenza terribile di risposte inevase, la persistenza lacerante del dubbio causata dal dramma dell’assenza.

 

Non saprò mai

se qualcuno avrà cura di te

se io sono motivo del tuo orgoglio.

 

[…]

Da vent’anni non taglio i capelli

dormo male

il telefono ha smesso di squillare

in sogno tutti i volti

si assomigliano.

Perché te ne sei andato?

 

Crescere in fondo è un concetto puramente biologico, l’età è un affare che compete solo all’anagrafe dei vivi, alla sua vuota burocrazia: in definitiva si rimane l’ipostasi degli attimi imprescindibili del nostro cammino, la spoglia di chi ci ha lasciato. Così il nostro destino è rimanere eternamente fragili, incompiuti, in tutto diversi tranne che nella matrice insanabile che si annida dentro di noi e che ci obbliga a rimanere sempre piccoli, inadeguati forse.

 

Non è uguale la casa

e nemmeno il mio viso

il cuore piccolo

come allora.

 

[…]

E attraverso la stanza

sento gridare il mio nome

tu sei morto

sarò piccola per sempre?

 

Il libro procede attraverso questa accumulazione di frammenti, in un climax ascendente e ben orchestrato, alternando riflessioni intime a esposizione di nugae che tuttavia acquisiscono un forte concentrato di significato e necessità, rievocazioni memoriali che non sono mai nostalgiche ma assunzione di responsabilità verso la vita, il tutto strutturato come una sorta di personalissimo xenia, omaggio mai retorico a un bene che va preservato, di cui la poesia solo può farsi tramite cercando di essere traghetto anziché scialuppa di salvataggio.

 

Io non parlo la vostra lingua

vengo da un altro regno

la mia passione è aprire le porte

alzare le soglie

perdere le cose

per avere più spazio.

Ho mani nervose

nessuno paga per queste mani

o per quello che dico.

Ma tutti pagheremo la stessa moneta

per essere traghettati in un letto

da uno sconosciuto.

 

E il senso della poesia sta in questo attendere incondizionatamente, su una spiaggia o in un gran caffè poco importa, ascoltare l’eco sepolta, coltivare quelle toppe d’inesistenza per renderla speranza. Così si chiude questo viaggio di anno in anno, di padre in padre:

 

La signora in tailleur bleu

seduta gambe accavallate

al gran caffè di Simo

(gran caffè gran caffè)

 

e aspetta. Aspetta

aspetta.

 

 


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