Ho il privilegio di presentare al lettore italiano due testi di due fra i più significativi poeti rumeni. Si tratta di due voci certo diverse: più corposa, aspra, quasi crudele nella sua lucidità spietata e metallica, quella di Radu Vancu, del quale andranno ricordate almeno le raccolte Biographia litteraria, del 2006, e Amintiri pentru tatăl meu, Ricordi per mio padre, del 2010; più lirica, distesa, melodiosa, quella di Floarea Ţuţuianu ‒ eppure, spesso, accesamente, intensamente sensuale, anche se nel senso di quella che è stata definita una «sensualità sovrasensoriale», aperta e tesa ad una sfera superiore e più pura, una sorta di dannunziana «sensualità rapita fuor de' sensi», come nei versi erotici riuniti nell'antologia Sappho (Cartea românească, Bucureşti 2012): «Să-i iei apoi cu teamă mâna / şi să o pui pe pântec: Acesta e Cuvântul / El e buricul lumii» («Prendile poi la mano con timore / e posala nel grembo: Questa è la Parola / l'Ombelico del mondo»). (Della poetessa si può leggere, in italiano, un'antologia con le fedeli e fluide versioni di Angela Tarantino, Non voglio invecchiare nel sonno, Mobydick, Faenza 2012, http://www.ibs.it/code/9788881784974/tutuianu-florea/non-voglio-invecchiare.html ).
Ecco, l'elemento fondamentale che accomuna questi due poeti così all'apparenza lontani è proprio il richiamo al valore assoluto e fondante (tanto spesso richiamato nella grande poesia rumena del Novecento, da Stănescu a Sorescu) della Parola, del Cuvânt ‒ etimologicamente con-ventum, unione, fusione, legame fra gli uomini ‒ ma anche congiunzione, abbraccio del molteplice nell'Uno, ricomposizione dionisiaca dei frammenti e dei lacerti per una rinascita, per una nuova vita ‒ e tramite tra sfere distinte, quella dei vivi e quella dei morti, quella del transeunte e del perituro e quella di ciò che è invece destinato a restare, nella memoria e sulla pagina, appunto attraverso la mediazione del Verbo.
Parola-Luce, luce rivelatrice, quasi metafisica (ma di una metafisica vissuta, incarnata in una dolente esperienza) quella della Ţuţuianu: parola-luce come in Ungaretti, spiraglio di comunicazione, di respiro e di apertura, nel momento dell'abbandono, della discesa, della perdita dell'altro, e di se stessa nell'altro; infine, Parola divina, parola del Dio che si fa «tutto in tutti».
Slava, gloria (anche in senso mistico), riposa sulla stessa radice indoeuropea da cui deriva il greco Kléos, gloria ‒ ma gloria nel senso di luce, rivelazione, voce eco risonanza ‒ e questa gloria-silenzio, questa rivelazione muta, sono l'ossimoro fondamentale che nutre il discorso poetico, e in cui esso si muove.
Ancora più abissale e tragica la distanza, la voragine quasi, da cui parla Radu Vancu. Quella della morte, anzi della mors voluntaria, che è essa stessa segno, enigma, messaggio criptico, gesto indecifrabile, eppure gravido di senso, per coloro che restano, nel dolore e nella perdita.
La solitudine del padre nella morte è la stessa Solitudine di Dio. Nel nome dell'assenza, nello spazio infinito ed oscuro della perdita, il padre terreno si ricongiunge con il Padre celeste. Due solitudini che si specchiano e si fondono l'una nell'altra, in un abbraccio da cui il poeta è escluso. La natura è sorda, gratuita, ed ignara, come il respiro solitario delle rose stordite dal loro stesso profumo ‒ come il palpito e il mormorio essenziali e ciechi della vita e della morte.
Il poeta continuerà a vivere, per gli affetti che lo vincolano, con dolce e amorosa ferocia, al mondo dei vivi ‒ anche se la vita stessa è ormai simile ad una quotidiana morte, rinnovata e nuovamente celebrata ogni giorno, ad un continuo inesorabile logorio del tempo vitale.
Il richiamo al simbolo biblico della Merkavah, del carro divino (che qui non si leva verso un cielo fulgido, ma discende nella cruenta profondità della carne martoriata), suona di un'ironia tragica e amara. (Matteo Veronesi)
Radu Vancu
Dragă Sinucidere
Tati, prea mult mi-ai vorbit,
ajunge, de acum o să-ţi vorbesc eu.
Nu-n vis, ci chiar pe bune.
Şi ţi-o spun neted din capul locului:
oricât de mult iubesc sinuciderea ta,
nu mă voi sinucide.
Oricât de tehnicoloră e moartea,
oricât de frumoşi am arăta amândoi
în filmul cu sinuciderile noastre regizat
de însuşi ăla, oricâtă
poezie pură e-n manualele de suicidologie –
nu mă voi sinucide.
Mi-am tăiat şi eu braţele cu lama,
am pe ele mai multe cicatrice
decât poze cu noi doi, sau numai cu tine.
Am băut alcool metilic cu cana,
sperând îngrozit să mor direct,
să nu mă trezesc a doua zi orb.
Crezi că eu nu ştiu cât de dulce
se adânceşte lama în carnea
antebraţului, coborând tot mai mult
în făgaşele mustoase de sânge
prin care va trece împroşcând totul
carul cu roţi aurite al lui Dumnezeu?
Crezi că nu văd cum cicatricele se fac
luminoase ca nişte copii răsfăţaţi
atunci când mă gândesc la tine?
Am invidiat, invidiez încă până la leşin
morţii atât de cufundaţi în liniştea lor
că-s nişte trandafiri mirosindu-se pe ei înşişi.
Însă, tati, trandafirii-s fără de ce,
ei înfloresc aşa cum oamenii se sinucid.
N-au altă soluţie. Cum nici eu n-am:
După ce ţi-am tăiat frânghia din jurul gâtului,
tu n-aveai de dat ochii decât cu mine.
Eu am de dat ochii cu Sebastian.
Iar acum, singur printre trandafirii tăi,
tu n-ai de dat ochii decât cu Dumnezeu.
Pe când eu am de dat ochii cu Sebastian.
Aşa că înţelege şi iartă, tati –
nu mă voi sinucide.
(Şi abia asta-i, de fapt, o sinucidere.)
[Vatra, nr. 6-7/2014]
Mio diletto suicidio
Padre, troppo a lungo mi hai parlato,
ora basta, lascia che sia io a parlarti.
Non nel sogno, ma nel mondo vero.
E te lo dico chiaro dal principio:
per quanto io possa amare il tuo suicidio,
io non mi ucciderò.
Per quanto multicolore sia la morte,
per quanto graziosi appariremmo entrambi
nel filmato della nostra morte,
proprio per questo, per quanta
pura poesia vi sia nei manuali
di suicidologia, io non mi ucciderò.
Anch'io mi sono tagliato le vene,
porto su di esse più numerose cicatrici
delle foto con noi due, o con te da solo.
Con voluttà ho ingoiato metilene,
sperando agghiacciato di morire sul colpo,
di non svegliarmi cieco il giorno dopo.
Credi non sappia con quanta dolcezza
affonda la lama nella carne
dell'avambraccio, profondamente scendendo
lungo le vie cruente che percorrerà
spargendo sangue il carro
divino dalle ruote d'oro?
Credi che non veda come brillano
le cicatrici, quasi bambini accarezzati,
quando penso a te?
Ho invidiato, ancora invidio fino all'incoscienza
i morti sprofondati nella pace
come rose inebriate da se stesse.
Ma non hanno, padre, una ragione le rose,
fioriscono così, come si uccidono gli uomini.
Non hanno altra soluzione. E neanch'io l'ho:
Dopo che ebbi reciso la corda stretta intorno al tuo collo,
non dovevi guardare altri che me.
Io devo guardare Sebastian.
Ma ora, solo fra le tue rose,
non devi guardare altri che Dio.
Mentre io devo guardare Sebastian.
Perciò, padre, comprendi e perdona ‒
io non mi ucciderò.
(E anche questo è, in fondo, un suicidio).
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Floarea Ţuţuianu
Tăcerea femeii este slava ei
Stau în colţul camerei
şi mă preling de pe pereţi în genunchi
De şapte ori a trecut un vers prin mine
şi nu şi-a găsit locul
Zile şi nopţi zile şi nopţi gura mea nu s-a atins
de niciun cuvânt
Şi am început să văd am început să văd
Negru în faţa ochilor
Şi o lumină de la un singur cuvânt
Luminând
O tu care eşti singur între cei singuri şi
totul în toate
Durerea e mută. Iubirea e oarbă.
Il silenzio della donna è la sua gloria
Abbandonata in un canto
scivolo in ginocchio lungo i muri
Per sette volte un verso mi ha sfiorato
e non ha trovato in me un luogo in cui abitare
Giorni e notti giorni e notti la mia bocca
non ha toccato parola
E ho iniziato a vedere ho iniziato a vedere
Nero davanti agli occhi
E una luce che veniva da una parola sola
Luminosa
O tu che sei solo fra i soli e
tutto in tutto
Muto è il dolore. E l'amore è cieco.
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